Le convinzioni profonde sono nemiche più pericolose
della verità, che non
le menzogne (F. Nietsche)
Atena Lucana, "più o meno medioevo": Prima Edizione della manifestazione "I piatti poveri" |
"E
se non avessimo altro che la sola raccolta delle poco men, che
innumerevoli iscrizioni che si leggean un tempo nei marmi, tra per
l'incuria, il poco senno della gente ignorante rotti, e fracassati, e
per la lunghezza del tempo corrosi forse molte cose sapremmo delle
Atenesi antichitadi, che ignorate ci sono. Ma giacché nostro
malgrado, ci siam imbattuti in tempi, in cui ci è di necessità
camminar a tentoni...[...]"
Troyli
- Istoria Generale del Reame di Napoli, Tomo 1°, parte 2°, pag 163
(in Istoria di Atena Lucana" del Dottore Michele La Cava.
Leggendo querste poche righe ci si rende conto che già alla fine del 1800 si ritenne necessario sottolineare l'incuria e il disinteresse degli atinati per la loro stessa storia. Un tentativo di recupero di quanto non andato ancora perduto a causa di questa secolare incuria è quindi, oggi più di allora, impresa ardua. Gestire poi con faciloneria e senza competenza alcuna, notizie che affondano le loro origini si nella leggenda ma in quella metropolitana (cioè alla chiacchiere per sentito dire e senza alcun documento storico a supporto), induce inevitabilmente a formulare ipotesi a dir poco fantasiose, che sfociano in ricostruzioni improbabili e fuorvianti.
Uno
scambio di opinioni, a tratti anche un po' vivace, avuto in queste
sere d'estate con una mia compaesana sulle supposte e reali origini
del nomignolo di mangiasignori mi ha indotto, dopo anni di inutili
tentativi di spiegare le ragioni dell'infondatezza di tale credenza
popolare, a mettere per iscritto la mia opinione sulle sue origine e
le motivazioni del mio convincimento che quanto noi atinati
raccontiamo e ci raccontiamo da decenni, non senza un certo orgoglio
(giustificato), non sia riportato con precisione di eventi e
collocazione storica.
Spero
con questo breve scritto di contribuire a fare chiarezza su questa
annosa vicenda.
Iniziamo
col dire che nei dizionari di lingua italiana, il termine
“mangiasignori” non lo si trova.
Nondimeno
esiste un termine simile che fa riferimento non ai nobili bensì ai
prelati.
Il
termine è “mangiapreti” e, a differenza del
mangiasignori, lo si trova agevolmente nei suddetti dizionari. Per
brevità riporto il significato del termine facendo riferimento
soltanto a due tra i più autorevoli e cioè il Sabatini Coletti e lo
Zanichelli.
Nel
primo si legge:
mangiapreti
[man-gia-prè-ti] s.m.
e f. inv.
Persona
intollerante e maldicente nei riguardi dei preti; anticlericale
convinto e dichiarato
a.
1881
Il
secondo analogamente, riporta:
mangiapreti
[man-gia-prè-ti] aggettivo,
nome maschile e nome femminile invariabile
si
dice di chi non ama i preti e i religiosi in genere.
Mangiapreti
sono ad esempio detti i Romagnoli ed i comunisti in genere.
Almeno
quelli di una volta e non tutti ovviamente; si dice che i buongustai
mangiassero solo i bambini.
Del
resto, chi non ricorda le divertenti storie di Peppone e Don Camillo,
i personaggi nati dalla penna di Guareschi e interpretati sullo
schermo da Fernandel e Gino Cervi?
Entrambi
i termini li troviamo insieme in questo passo di "Nuove storie
d'ogni colore" di Emilio de Marchi "Quando
si dicono le combinazioni! Rostagna era da cinque anni il tirannello
del mandamento, un radicale rosso anche lui come il suo villano,
un mangiapreti e un mangiasignori in
insalata. Eletto coll'aiuto materiale e morale degli osti e dei
mediatori di vitelli, spadroneggiava i comuni a dispetto dei padroni
e delle autorità, che dovevano sopportare la sua prepotenza, voglio
dire la sua influenza sui ministeri."
Quindi,
nel nostro caso specifico, sostituendo il signore al prete, possiamo
tranquillamente affermare che un mangiasignori è persona che non ama
la nobiltà. Quindi per mangia signori non è necessariamente da
intendersi uno che mangia letteralmente un altro essere umano, benché
di nobili origini, ma anche e più realisticamente una persona che,
più semplicemente e più realisticamente, non ama la nobiltà in
genere e che in un determinato periodo storico o anche in più di
uno, ha manifestato palesemente questa sua avversione verso la
nobiltà del tempo, magari arrivando ad azioni non proprio eclatanti
e poco credibili come un atto di cannibalismo, ma una vera e
propria rivolta, si. Azione che ragionevolmente sarebbe potuta
bastare a far meritare ai nostri antenati il nomignolo.
L'accezione
data al termine nella nostra lingua, unitamente al buon senso e ad un
minimo di ricerca storica ispirata dall'interesse per il recupero
della vera storia della nostra comunità, pone quindi sotto una luce
diversa il soprannome affibbiato in passato agli atinati. Dare agli
abitanti di un paese un soprannome era del resto prassi comune, così
come testimoniato dal fatto che non solo gli atinati ma gli abitanti
di tutti i paesi del Vallo di Diano nel passato hanno avuto un
soprannome; gli abitanti di Teggiano, ad esempio, è noto che sono i
"zomba fuossi ri Rianu".
Nel
passato si è detto, ma con precisione quando?
Molti
atinati (se non tutti) sono convinti che questo ingombrante nomignolo
ci sia stato affibbiato addirittura nel medioevo, in un periodo non
ben specificato, quando un non ben specificato signore avrebbe
preteso di esercitare lo jus primae noctis ai danni di una non ben
specificata fanciulla andata in sposa ad un non ben specificato
giovane che riesce a sollevare l'intera popolazione contro questo
nobile prepotente. Gli atinati raccontano che la popolazione in
rivolta abbia avuto la meglio sugli armigeri del nobile e che questo
alla fine sia stato non solo linciato dalla folla in delirio ma
addirittura mangiato. Cotto o crudo la “leggenda” non lo dice.
A
pensarci bene, non dice nemmeno perché i parenti del malcapitato non
abbiano organizzato nessuna azione punitiva contro i rivoltosi e che
si siano fatti sbranare un consanguineo senza battere ciglio (o
almeno farsi dare la ricetta).
A
pensarci meglio, non dice nemmeno perché in un'epoca dove si finiva
sul rogo per molto meno, nemmeno la Chiesa abbia agito contro questi
figli di Satana che si erano macchiati di un tale abominio.
Certo,
a giustificazione di queste lacune nel racconto, si potrebbe asserire
che si parla pur sempre di una leggenda e questa, in quanto tale, non
può e non deve essere credibile, altrimenti finirebbe di essere
leggenda per diventare storia. C'è anche da dire però che una
vicenda troppo lacunosa e con troppe contraddizioni al suo interno,
finisce per essere troppo poco credibile anche come leggenda, benché
tanto lontana nel tempo perché "medievale". E si, perché
sempre a voler fare una ricerca seria sul nostro passato e trovare le
radici di questo racconto, si dovrebbe innanzitutto riflettere sul
fatto che il medioevo è un periodo storico la cui individuazione
temporale è piuttosto controversa e che ha un suo inizio e fine
diverso da paese a paese e con riferimento a diversi eventi storici.
Per alcuni ha inizio con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente,
quindi nel 476, per altri nell'anno 1000, ma per tutti finisce con
l'età moderna e quindi o con la riconquista di Granada o con la
scoperta dell'America o con il Rinascimento (e quindi, a Firenze ad
esempio, in Architettura con Brunelleschi e in pittura con Masaccio e
Donatello).
In
sintesi, non tutti gli storici sono concordi nell'individuare con
precisione l'evento storico che segna l'inizio e la fine del periodo
detto dei secoli bui e ancor meno una data precisa, tanto è vero che
l'anno 1000 per alcuni è solo un riferimento temporale per segnare
il passaggio tra alto e basso medioevo. Potremmo dire, per non far
torto a nessuno, che con medioevo si indica il periodo piuttosto
lungo e che si protrae dal V al XV secolo dopo Cristo e che per
comodità di studio questo periodo può essere diviso tra alto
medioevo e basso medioevo, racchiudendo il primo periodo storico
dalla caduta dell'Impero Romano d'Occidente all'anno 1000 e il
secondo tra l'anno 1000 e il 1492, anno della scoperta dell'America.
Tornando
a noi, cioè agli atinati, ad onor del vero dobbiamo dire anche che
vari autori locali hanno scritto la nostra storia, autori i cui
scritti godono ancora oggi di credibilità: il Dott. Michele
La Cava che nel 1893 pubblicò
un suo scritto dal titolo “Istoria
di Atena Lucana”, l'Avv. Giovan
Battista Curto che nel 1901
pubblicò il suo “Notizie storiche
sulla distrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al
secolo XIX”, la Dott. Elena
D'Alto che pubblicò nel 1985
il suo “Atena antica”. Insieme a questi anche altri hanno
condotto ricerche e studi facendo sovente riferimento anche ad Atena
Lucana. Uno fra tutti il Prof. Vittorio
Bracco.
Grazie
agli studi condotti dai citati illustri autori e di altri, sappiano
alcune cose di Atena. Alcune più certe di altre. Del periodo
medievale ad esempio sappiamo con certezza, grazie anche a 3
pergamene del tempo, conservate alla Badia di Cava e che risalgono
una al 1100, un'altra al 1141 e la terza al 1231. Nella prima risulta
Raone, signore del castrum di Athana, mentre dalla seconda si
apprende che in età normanna feudataria è la contessa Giuliana,
signora del castello di Atana. Siamo quindi nel periodo del Regno di
Ruggiero di Altavilla. In una donazione del 1231, sotto il regno di
Federico II e perciò in età sveva, feudatario è Filippo de
Arcurio, signore del castello di Atina. Alla fine del 1200, col
dominio angioino troviamo i De Rocca con Giovanni, poi , con il
titolo di duca, Guglielmo il fratello e il figlio Guidone. Nel 1345
Atena passa sotto i principi Sanseverino di Salerno, nel 1339 a Luigi
e poi da questi al figlio Roberto, il costruttore della leggendaria
torre cilindrica del castello, dall'alto della quale si racconta si
vedesse lo stesso Golfo di Salerno.
Tornando
alla storia, nel 1474 è Antonello Sanseverino, principe di Salerno,
promotore nel 1485 della congiura dei Baroni, feudatario di Atena e
naturalmente anche Atena fu coinvolta in detta congiura. Atena rimase
possedimento dei Sanseverino fino al 1507, quando a Ferrante furono
confiscati tutti i beni e possedimenti per essere messi all'asta,
dove furono acquistati dal principe di Stigliano.
Nel
1571 Ippolita Filomarino moglie di Marco Antonio Caracciolo,
marchese di Brienza, acquistò Atena dal conte di Morcone ma solo
alla morte dei coniugi il figlio Giovanni Caracciolo potè
ricostituire il feudo nella sua integrità.
Giovanni
governò Atena per molto tempo ma non lo fece in modo oculato, tanto
nel curare i suoi stessi interessi quanto quelli dei suoi vassalli e
fu proprio sotto il suo governo che gli abitanti di Atena iniziarono
una serie di controversie che durarono a lungo. Il figlio ed erede
Giacomo non riuscì a restituire alla madre Diana Caracciolo la dote
e fu costretto a cedere a questa, in cambio della somma dovuta, la
terra di Atena che fu poi ceduta al figlio Giuseppe che ricevette il
titolo di principe sobra la tierra de Atina. I Caracciolo
manterranno il titolo di principi di Atena fino all'abolizione della
feudalità. L'ultima discendente, la principessa Giulia Caracciolo
donerà al nipote Luigi Barraco il palazzo costruito dal suo avo
Giambattista nel XVI secolo, anche con le pietre ricavate dalla
demolizione della leggendaria torre cilindrica del castello fatta
costruire da Roberto Sanseverino.
Ai
fini del nostro lavoro, possiamo tranquillamente fermarci qui.
Il
periodo storico velocemente ripercorso, compreso tra il 1000 e il
1639 e oltre è, come visto, ben documentato dagli autori del tempo,
eppure nessuno di essi o di epoche successive, fino ai giorni
nostri e quindi compresi gli autori locali già citati, riporta un
qualsiasi riferimento ad una ipotetica sommossa popolare legata a
questioni d'onore con tanto di assalto al castello, espugnazione
e all'annientamento della sua guarnigione, cattura del principe,
linciaggio e “fiero pasto” finale. Questo silenzio di storici
antichi e contemporanei sulla supposta rivolta in epoca medievale
avrebbe dovuto essere in tutti questi anni un motivo di attenta
riflessione per gli atinati o quanto meno avrebbe dovuto far balenare
in loro un dubbio sulla fondatezza delle origini della leggenda e
delle vere cause che gli ha fatto meritare l'appellativo di mangia
signori. E invece no, a dispetto dell'assenza di ogni riscontro
storico sul supposto linciaggio o sull'assalto al castello in epoca
medievale, gli atinati si ostinano a raccontarsi questa storiella e
molti con la convinzione incrollabile (da qui la citazione iniziale
di Nietsche), che questa
leggenda abbia un fondamento nella realtà, un episodio realmente
accaduto nel medioevo, semmai un po' romanzato, ma sostanzialmente
"vero".
In
realtà, a mio modesto parere, niente è più falso e la leggenda è
soltanto una leggenda metropolitana.
Prima
di entrare nel vivo del fatto storico, è necessario aprire ancora
una breve parentesi per tracciare la netta e importante linea di
confine che esiste tra leggenda in senso
stretto e leggenda metropolitana, tralasciando per ora la più
complessa differenza tra leggenda, leggenda metropolitana e mito. In
parole semplici, la leggenda è
un tipo di racconto che fa parte del patrimonio culturale di tutti i
popoli, appartiene alla tradizione orale e mescola elementi reali ed
elementi di pura fantasia. Di contro la leggenda
metropolitana è
un genere di racconto contemporaneo, che consiste in storie insolite
o incredibili tramandate oralmente che acquisiscono una certa ed
usurpata credibilità a causa della loro veloce diffusione dovuta
solo ad una cassa di risonanza molto potente fatta di gente credulona
e priva di ogni senso critico e che può variare dal gruppetto
davanti al bar al link su internet, ad esempio. Diventa vera perché
qualcuno lo ha detto ma non si ricorda più chi, quindi niente si può
dire sull'attendibilità della fonte ma se tanti la ripetono, allora
deve essere per forza vera, perché vox populi. Questo, sempre a
mio modesto parere, è quanto è successo ad Atena Lucana non nel
medioevo ma molto più realisticamente sul finire degli anni '70,
quando un gruppo di giovani di allora, tra cui la già citata
Dottoressa Elena D'Alto, un po' per gioco, un po' per amore verso il
teatro, un po' perché allora i ragazzi si riunivano anche per fare
cultura e non solo per giocare a pallone o a carte, mise in scena
nella piazza del paese un simpatico spettacolo che tra gags e canzoni
più o meno tradizionali, operò una ricostruzione, a tratti
fantasiosa, della storia di Atena Lucana. La parte più fantasiosa
ebbe il pregio o la colpa di creare una storiella che prendeva spunto
da un fatto realmente accaduto e cioè una non ben definita rivolta
popolare degli atinati verso un signorotto locale. Questa storia si
tramandava oralmente tra gli abitanti da generazioni e si
credeva antichissima. Ancora oggi, altrettanto erroneamente, si crede
alle sue origini medievali ma, come vedremo in seguito, in realtà è
molto meno antica di quanto si è creduto si creda ancora. E'
probabile che questi volenterosi ragazzi, non avendo notizie certe
sul motivo e la datazione dell'evento o forse anche per ragioni
squisitamente teatrali, romanzarono l'evento forse anche nell'intento
di renderlo più accattivante e, arbitrariamente l'ambientarono nel
medioevo confezionandoci intorno anche una causa scatenante
"storicamente plausibile", lo jus primae noctis, appunto.
Premesso
che la rivolta a cui gli atinati fanno vagamente riferimento nella
loro leggenda c'è veramente stata e che è anche ben documentata,
come dirò in seguito, tralasciamo ancora per un po' la sua
narrazione, perché al momento si rende necessaria un'ulteriore
breve quanto istruttiva divagazione su cosa sia stato lo jus
primae noctis e se quanto
detto intorno a questo sia attendibile o meno. Ancora una volta per
far luce sulla situazione occorre fare una ricerca. Una ricerca su
internet è sufficiente a documentarsi su tale supposta pratica
medievale e a chiarirsi le idee su di essa ed il suo supposto uso.
Innanzitutto cominciamo col dire che l'espressione jus
primae noctis viene dal latino
e che letteralmente significa diritto
della prima notte. Il diritto di cui
sopra avrebbe indicato la libera facoltà del signore feudale di
trascorrere, in occasione del matrimonio dei suoi servi, la
prima notte di nozze con la sposa. In realtà dalla ricerca risulta
chiaro che non esistono testimonianze della diffusione di questo
diritto nel medioevo, in tutta l'area europea. I documenti del
passato pervenutici e debitamente studiati da storici ed antropologi
ci ha permesso di conoscere in modo approfondito la legislazione dei
Regni di allora ed in nessuno di essi vi è traccia dello jus
primae noctis, né vi è alcun
riferimento nella legislazione longobarda a qualcosa di somigliante a
questo. Lo stesso dicasi per la legislazione carolingia e dei regni
successivi e per quella del Sacro Romano Impero e dei Comuni. In
conclusione nelle fonti storiche non ne sono rintracciabili direttive
né da parte delle autorità laiche, né da parte di quelle
ecclesiastiche e questa assenza di seppur minimi riferimenti ha
portato a concludere la maggior parte degli storici contemporanei che
lo jus primae noctis sia una leggenda sviluppatosi a partire
dall'illuminismo. In ogni caso e questo chiude definitivamente la
questione, oltre all'assenza di riferimenti legislativi ufficiali
civili o ecclesiastici, nel medioevo vi furono talvolta rivolte dei
contadini in occasione delle quali venivano redatte in
forma scritta richieste e lamentele dei
rivoltosi e in nessuno di questi testi risulta che siano mai state
trovati accenni allo jus primae noctis, né a soprusi sessuali
d'altro genere. Questo ci porta a fare ancora un piccolo passo avanti
nella nostra ricostruzione e cioè che è opinione della maggior
parte degli studiosi che lo jus primae noctis non sia mai
esistito e che si sia semplicemente scambiato il maritagium
per un riscatto di un antico diritto reale del signore sugli
sponsali mentre in realtà si trattava di un diritto che gravava sui
beni, non sulle persone. In campo religioso, lo jus suddetto deve
essere identificato poi con la pratica degli sponsali, al termine
della cerimonia laica, di farsi dare una benedizione speciale dal
sacerdote e nell'astenersi la prima notte di nozze da rapporti
sessuali, in rispetto di essa. E con questo, anche quanto detto sullo
jus primae noctis ai fini dei questa breve disquisizione, può
bastare e possiamo finalmente riportare l'evento a cui la leggenda fa
realmente riferimento, la
rivolta del 1647-48.
Per
un'esposizione più chiara e per una maggiore fedeltà storica
all'evento, trascrivo pari pari quanto riportato da Francesco
Paternoster nel suo “I
feudatari di Brienza”.
“La
crisi economica e la rivoluzione del 1647-48 si risentirono e
ripercossero vivamente anche a Brienza, Pietrafesa, Atena e
Sasso, nei paesi cioè facenti parte del Feudo Caracciolo, dove le
misere popolazioni di pastori,
fittaiuoli, braccianti e modesti contadini gravati da censi e tributi
vari,
divenute ormai più intolleranti, irrequiete e ribelli, insorsero,
tentando per la prima volta di spezzare il giogo cui da tanti secoli
erano sottomesse di
reclamare diritti mai loro riconosciuti e concessi, di liberarsi del
gravoso peso di tanti tributi, vincoli e divieti che le costringeva
ad una vita priva di libertà, misera, piena di ingiustizie. E non
solo il popolo si sollevò, bensì anche l'università e il clero,
l'una per riottenere il demanio dell'università usurpato, l'altro
per difendere il patrimonio delle Cappelle e dei monti di pietà.
E
le popolazioni di Atena, Brienza, Pietrafesa e Sasso parteciparono sì
apertamente e attivamente ai moti popolari, da far fallire
completamente il tentsativo del duca di Martina di creare un centro
controrivoluzionario proprio attorno al feudo dei Caracciolo di
Brienza, nel territorio di Marsicovetere, ove crollava anche la
resistenza del Principe Salvatore Caracciolo, permettendo agli
insorti di unirsi a quelli di Marsiconuovo, che era insorta ai primi
di Agosto, accogliendo le forze popolari guidate da Vincenzo Pastena.
Da
Atena partì pure per Napoli una delegazione di undici persone per
presentare 43 <<capi di gravame>> contro il barone; ma
non riuscì ad entrare nella città.
I
cittadini intanto si rifiutarono di pagare i canoni e assalirono
finanche il palazzo del feudatario di Atena.
Ma
anche a Brienza, Pietrafesa e Sasso i rivoltosi <<durarono
ostinatamente nella loro perfidia>>, e fino a quando nel
maggio 1648 non tornò nel feudo con quattrocento soldati Giuseppe
Caracciolo, principe di Atena, che, <<tenendo vassalli sotto il
terrore per 18 giorni>> rimise l'ordine nelle sue terre, <<con
dare aspro castigamento a coloro che avevano fallato>>
Ma
questa dura rappresaglia non impedì tuttavia ai ribelli
dell'autorità regia del feudo, qualificati <<briganti>>,
capeggiati da G.B. Di S. Arsiero e certo notaio Fabio Pessolano di
Atena, di riunirsi alle bande del famoso Tittariello che nell'agosto
1648 entrarono in Sala e i <<massacrarono parecchi cittadini
fedeli a Spagna>>, e successivamente, il 15 agosto, si
scontrarono ad Atena colle truppe inviate dal Vicerè sotto il
comando di Scipione Monforte e dell'Uditore di Salerno Giovenco”
La
rivolta capeggiata a Napoli da Tommaso Aniello (conosciuto poi come
Masaniello), nel principato fu invece capeggiata da Ippolito di
Pastina (il masaniello napoletano), mentre il fratello Vincenzo
capeggiò quella nel Vallo di Diano. Ebner racconta di palazzi
assaltati, portoni divelti e sgherri uccisi con la testa mozzata,
come quelli del signore di Camerota, a cui fu inviato anche il
macabro trofeo a Napoli, dove si era rifuggiato. Sempre Ebner narra
della sorte toccata al sanguinario barone di Casalicchio, (l'antico
nome di Casalvelino) Giovan Battista Bonito che il 23 luglio 1647 fu
squartato e fastto a pezzi su un ceppo da macellaio, da parte della
folla inferocita.
Anche
in questo caso però non c'è notizia di "fiero pasto".
Quello
che invece si sa è che Vincenzo non riuscì a sobillare le
popolazioni del Vallo di Diano e che solo la popolazione di Atena
ebbe l'ardire di pretendere il ridimensionamento delle esose
prerogative arrogatesi dal principe Caracciolo.
Riporto
fedelmente quanto contenuto nel libro di Ebner: " L'universitù
chiese, segnala il Cassandro, << che il feudatario paghi, come
non ha mai fatto, la bonatenenza per la quale deve 15000 ducati;
lasci la portulania che ha usurpato da anni; non pretenda di
riscuotere un fitto annuo di 50 ducati per la scafa che possiede sul
fiume pubblico (Chiarisce V. Bracco che in qual tempo non vi era il
ponte sul Tanagro che <<da sotto Atena taglia il Vallo e sbocca
a San Marzano, per cui si era obbligati a servirsi della "scafa"
del principe su cui si pagava il pedaggio, per cui "si aveva un
ponte in meno e una speculazione in più>>); cessi di arrogarsi
il dominio della bagliva; restituisca all'università i territori
demaniali usurpati; non faccia pascolare nel demanio le sue bestie;
che vieti che i provati difendano le loro terre demaniali dissodate e
coltivate dai cittadini. Il 16 dicembre le predette richieste
all'università vennero accolte e il principe promise allo stesso
vicerè di attenervisi. Ma rientrato ad Atena, alla testa di 400
sgherri, dopo aver ascoltato, compunto, persino il Te Deum nella
chiesa, sguinzagliò la soldatesca avida di bottino sugli inermi
abitanti che il feudatario marchiò come "ribelli cani". Né
il furore vendicativo del principe si attenuò per l'intercessione di
pd Ambrogio Pantoliano, il quale da Polla, si era recato
appositamente ad Atena. Il povero frate venne svilaneggiato e deriso
dal principe e dai suoi, come ricorda il Capecelatro. [...] Il 20
Giugno 1656 scoppiò la peste[...]Il principato che, come si è detto
era molto più vasto dell'odierna provincia di Salerno, fu decimato
[...] V. Bracco ricorda la morte a Napoli per peste (26
agosto 1656) del crudele Giuseppe Caracciolo, creato
principe di Atena (v.) l'8 ottobre 1636, il quale nel 1651 aveva
ereditasto dal fratello il marchesato di Brienza e feudi minori e
anche Sasso e Pietrafesa [...].
Che
cosa si apprende d'interessante da questo scritto del
Paternoster (confermate da quello di Ebner)?
- che prima del 1648 non ci sono rivolte documentate degli atinati contro nobili del posto.
- che la rivolta nasce per ingiustizie che poco hanno a che fare con questioni di camere da letto ma molto di più per questioni di sale da pranzo
- che, epilogo scontato, il nobile di turno sopravvissuto alla cittadinanza in rivolta, ovviamente torna con un numero adeguato di sgherri per punire i rivoltosi. Se non fosse sopravvissuto, è logico supporre che sarebbero stati sicuramente i suoi parenti a farlo ed in modo molto più duro.
A
maggiore conferma di quanto asserito al punto 1, riporto
testualmente anche quanto scritto nel libro "Il viceregno di
Napoli nel sec: XVII" di Giuseppe Coniglio. A pag. 19 del
suddetto testo, si legge: " Non
bisogna però dedurre che tutti i nobili fossero manutengoli dei
banditi e depredassero i cittadini, vessandoli in tutti i modi. Certo
vi furono soprusi ed abusi vari, ma probabilmente né più né meno
di quanto avviene ovunque l'autorità centrale non sia forte. Valga
l'esempio di Atena Lucana ove, in alcuni secoli di feudalesimo, il
dominio di un solo feudatario può essere giudicato una <<triste
parentesi>>, quello di Giuseppe Caracciolo,
mentre con i suoi predecessori e successori i rapporti si mantennero
su <<un terreno meramente patrimoniale>>
(nota 26 che rimanda a - Cassandro, Storia di una terra cit.
pag. 92)
Soprattutto però si evince che l'antica leggenda non è poi così antica e che a renderla tale è stata il disinteresse per la ricerca delle sue vere origini e ragioni, cosa che l'ha trasformata in leggenda metropolitana, più che in leggenda in senso stretto. Interessante notare come un episodio simile a quello che la leggenda (ormai acclarata come metropolitana) vuole accaduto ad Atena a danno del suo principe, in realtà pare accaduto realmente a Casalvelino a danno del principe di quella terra, Giovan Battista Bonito, ma ancora una volta durante i moti del 1648 e non in epoca medievale e, cosa fondamentale, senza atti di cannibalismo.
Del
resto, come ho avuto modo di dire in più occasioni, se proprio
vogliamo trovare per forza una collocazione antica e una ragione
fantastica all'ingombrante nomignolo, perché non rifarci
addirittura ad un eroe mitologico? Abbiamo un legame "storico",
sebbene anch'esso molto controverso e sotto alcuni aspetti
discutibile, con Atteone, tanto che sullo stemma del comune questi
compare come cervo sbranato dai cani, così come racconta la
leggenda, poi ripresa anche da "Le metamorfosi" di Ovidio.
Bene, allora partiamo da questo e "ricamiamoci" sopra. Vi
assicuro che Atteone sbranato dai cani è una leggenda molto più
"credibile" di quella del signorotto sbranato dalla
popolazione e spero di trovare presto il tempo e la concentrazione
necessaria per poterne scrivere.
PS
Aggiungo
a quanto detto, altre 2 postille: la prima riguarda strettamente il
nostro passato ed è perciò di fondamentale importanza per la sua
corretta ricostruzione, la seconda è, invece, una precisazione
storica di carattere culinario il cui valore non è legato al solo
territorio atinate.
- Qualcuno ha letto dell'esistenza nei tempi passati dell'università di Atena e si è convinto che ad Atena esistesse un' Università degli Studi, cioè l'Università così come comunemente s'intende oggi quando si parla della Federico II di Napoli o di quella di Fisciano piuttosto che di quella di Firenze o del Politecnico di Milano, ecc.
Anche
questa è palesemente una falsità, oltre ad un'assurdità.
Ad
Atena Lucana, infatti, non c'è mai stata un'università in quel
senso e quindi la notizia, assimilata senza discernimento, andava
interpretata in modo diverso e corretto.
Se
risaliamo all'etimologia del termine univerità, infatti, troviamo
tra le varie accezioni quello che più si adatta al nostro caso: "il
Comune o Tutto il popolo di una città". Cioè chi ha
scritto "università di Atena Lucana", intendeva
indicare tutta la sua cittadinanza e certo non un polo universitario.
Infatti
facendo una breve ricerca si scopre che le università
o universitates o anche università del Regno, erano
nient'altro che i comuni dell'Italia meridionale sorti già ai tempi
dei Longobardi ed in seguito resi feudi con l'avvento dei
Normanni.
Sembra
che questo nome lo si debba a Carlo I D'Angiò che preferì il
termine universitas, derivante da "universi cives",
cioè: "unione di tutti i cittadini", a "comune",
termine usato ai tempi di Federico II di Svevia.
Sempre
dovuto al suddetto D'Angiò anche la distruzione dei sigilli
comunali.
Le
universitas terminarono la loro esistenza soltanto con l'abolizione
del feudalesimo, avvenuta per volere di Giuseppe Bonaparte e sancita
con il decreto del 2 Agosto dell'anno 1806.
Altra
cosa importante da dire sulle universitas è che si distinguevano
in Universitas feudali e Universitas
demaniali.
Le
prima si tramandavano da castellano a castellano in quanto proprietà
di un feudatario come merce qualsiasi e quindi la stessa sorte
toccava contemporaneamente non solo ai terreni, ma anche bestie e
addirittura agli esseri umani ad esse legate. Le universitas
demaniali, invece, di numero molto inferiore alle prime, dipendevano
dalla Corona e godevano di maggiori libertà e privilegi, tra cui il
diritto di ricorrere alle autorità superiori in caso si fosse
ravvisato un abuso da parte dell'amministratore locale.
Inutile
dire che esiste una bibliografia su quanto appena detto e che molte
notizie sono reperibili con non molta fatica, anche in rete
Riporto
sempre per amore di brevità e verità storica, il seguente passo,
reperito appunto su internet:
"A
cavallo della dominazione normanno-sveva molti Casales furono uniti,
dando così origine alle Universitas che
resero fine alle leggi eversive della feudalità emanate dai
Napoleonidi nel 1806. Così verso la meta del XIII secolo la contea
giffonese si divise in tre Università:
Valle e Piano, Sei Casali e Gauro. L’Universitas Sex
Casalium riuniva sei Casali: Ausa, Belvedere, Bissido,
Capitignano, Prepezzano e Sieti. Gli abitanti di ogni centro
vennero allora retti da leggi emesse, in armonia con le leggi del
Regno, da un potere centrale costituito da amministratori eletti da
ogni Università e riuniti in
Reggimento (Consiglio comunale) con una propria Cancelleria
(Municipio).
A prescindere da quanto riportato a conferma, quando leggiamo un documento storico cerchiamo quantomeno di non travisarne il contenuto commettendo l'ingenuità di prendere alla lettera determinate espressioni, invece di cercare di capirne il senso.
Se
non altro per evitare di passare per cannibali laureati.
Credere
all'esistenza di università nell'allora territorio di Atena Lucana,
equivale infatti a credere, secondo quanto riportato anche dallo
stesso Paternoster ad esempio, che a quei tempi (cioè sempre "più
o meno nel medioevo" ) avremmo avuto contemporaneamente, così
come riportato in un documento del 1809, un'università a Sasso, una
a Pietrafesa, una a Brienza ed una ad Atena, cioè un polo di enormi
dimensioni, tale da far impallidire l'attuale Federico II e
Fisciano messe insieme.
- La seconda precisazione riguarda invece la cucina, come già anticipato. Cito testualmente, come sempre per amore di precisione e per brevità::
"Il
pomodoro è una pianta orticola della famiglia delle solanacee
(Lycopersicon esculentum). Raggiunge a volte l’altezza di 2 metri e
necessita di un sostegno. Le sue foglie sono lunghe e con un lembo
profondamente inciso; i fiori si presentano a grappoli e sono
distribuiti lungo il fusto e le ramificazioni. Il suo frutto,
anch’esso denominato pomodoro, è una bacca rossa di forme e
dimensioni diverse a seconda della varietà, con una polpa dal sapore
dolce-acidulo ricca di vitamine (A, C, B1, B2, K, P e PP).
La
pianta è originaria del Cile e dell’Ecuador,
dove per effetto del clima tropicale offre i suoi frutti tutto
l’anno, mentre nelle nostre regioni ha un ciclo annuale limitato
all’estate, se coltivata all’aperto.
Dominatore della gastronomia napoletana e largamente diffuso in tutto il mondo per il suo gusto oltre che per le sue importanti proprietà dietetiche, il pomodoro ha tuttavia raggiunto le cucine europee in tempi relativamente recenti e, sebbene importato già nel Cinquecento, soltanto due secoli dopo è stato impiegato nell’alimentazione."
Dominatore della gastronomia napoletana e largamente diffuso in tutto il mondo per il suo gusto oltre che per le sue importanti proprietà dietetiche, il pomodoro ha tuttavia raggiunto le cucine europee in tempi relativamente recenti e, sebbene importato già nel Cinquecento, soltanto due secoli dopo è stato impiegato nell’alimentazione."
In
sintesi: il pomodoro è arrivato ad Atena Lucana soltanto dopo la
scoperta delle Americhe e cioè dopo l'ottobre del 1492 (evento che
secondo alcuni, come già detto, segna la fine del medioevo) e quindi
ha poco a che fare con i "piatti medievali".
Questo
è il quanto, con la speranza di essere stato utile all'università
di Atena Lucana.
©
Arch. Angelo Sangiovanni
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