martedì 27 dicembre 2016

Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX” - NOTE INTRODUTTIVE AL TESTO



Rileggendo il mio contributo alla ristampa dei libri mi sono accorto di aver inviato per errore la bozza e non la stesura definitiva. Purtroppo non c'è stato il tempo per sostituire lo scritto, quindi dovrò aspettare una ulteriore ristampa per poterlo fare. Sebbene in occasione del mio intervento alla presentazione abbia compensato fornendo le informazioni non riportate nella bozza, a beneficio di chi non era presente ed è interessato all'argomento, scusandomi per la mia disattenzione, riporto qui di seguito il testo integrale della stesura definitiva,


Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana
dai tempi incerti fino al secolo XIX”

NOTE INTRODUTTIVE AL TESTO


Quando il Presidente della Pro Loco mi ha chiesto di scrivere l’introduzione ad uno dei tre testi che si sono voluti ristampare, la scelta di “Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX”, scritto dall'Avvocato Giovan Battista Curto, è stata fortemente influenzata, anzi direi: obbligata, dal legame affettivo che da oltre quarant’anni mi lega a questo libro.
Il primo ricordo, infatti, risale all'infanzia. I coniugi Giovanna Scotese ed Angelo Lopardo, zii di mia madre e proprietari di quella parte di Palazzo Marino in cui sono nato e cresciuto ed in cui ancora oggi vivo con la mia famiglia ed ho il mio Studio di Architettura, ne custodivano gelosamente una copia nella cassettiera della loro camera da letto. Tra le variegate letture di “nonna” Giovanna, che aveva imparato a leggere grazie a qualche sporadica lezione presa dal fratello più grande, vi fu anche questo libro e, sebbene la sua scarsa scolarizzazione le impedisse di comprendere la complessità delle informazioni in esso contenute, ne acquisì e memorizzò alcune che mi trasmise con naturalezza ed ingenuità, mischiate alle leggende popolari ed ai suoi ricordi di Atena di inizi 900. Fu così che, nell'inconsapevolezza di entrambi, mi fornì notizie esclusive di cui solo col tempo ho capito l’inestimabile valore.
Dei racconti di “nonna” Giovanna, preferivo quello della torre del castello tanto alta che dalla sua cima si poteva vedere il mare del golfo di Salerno e ancor più quello di Atteone tramutato in cervo dalla dea Diana per punizione, perché l’aveva spiata mentre si faceva il bagno nuda nel lago che un tempo c’era nella nostra valle[i] e che fu poi sbranato dai suoi stessi cani mentre tentava di mettersi in salvo sulla collina di Atena. Più di tutti però mi affascinava quello del presunto anfiteatro sepolto proprio nella largura davanti la nostra abitazione “un palazzo appartenuto ai Marino, una famiglia nobile che, andata in bassa fortuna, l’ha dovuto vendere”.
Infatti, i Marino, sebbene non nobili ma possidenti, sono stati un’antica ed illustre famiglia di Atena, tanto che poterono fregiarsi di uno stemma (purtroppo trafugato negli anni 80) ed ottenere il privilegio della sepoltura, di alcuni membri, all’interno della Chiesa Madre di Santa Maria Maggiore[ii].
Alla luce di ciò, si comprenderà quanto il riferirsi al suddetto palazzo con nomi diversi da quello del suo committente e cioè dell’abate Severiano, come si evince chiaramente dal cartiglio sul portale in cui si legge:
D. SEV. AB. MAR F.F. A.D. 1781,
è un marchiano strafalcione storico”[iii] che interrompe, tanto pericolosamente quanto inutilmente, la continuità con gli antichi documenti, tra i quali anche questi fondamentali testi sulla nostra storia che si vogliono giustamente valorizzare e tramandare attraverso la ristampa ed in cui il palazzo Marino è più volte menzionato proprio in relazione al rinvenimento, nei suoi pressi, di importanti vestigia[iv].
Purtroppo, quando ancora non avevo raggiunto l’età per potermene prendere cura, il libro andò smarrito e dovettero passare molti anni prima che mi si presentasse nuovamente l’occasione di averlo tra le mani. Avvenne alla fine degli anni 80 e, ancora una volta, il ricordo del libro è legato a quello di una persona che mi è stata molto cara: il professor Gaetano Lamattina. A quei tempi mio padre dirigeva l’ufficio postale di Caggiano e grazie a lui ebbi modo di conoscere quello che è stato, non solo uno degli uomini più acculturati del Vallo di Diano, ma anche uno dei più seri ed appassionati storici locali. Fu in occasione di uno dei nostri incontri che mi donò una copia fotostatica del libro, preso in prestito alla Biblioteca Apostolica Vaticana, una delle tante che frequentava abitualmente per le sue ricerche. Personalizzata in questi miei anni di studi con sottolineature e note in continuo aggiornamento, ancora la conservo gelosamente, così come “nonna” Giovanna aveva conservato per anni la stesura originale.
Concludo questa mia breve ma utile divagazione, con un doveroso tributo di riconoscenza all'avvocato Curto, uomo di cultura e primo fra gli atinati ad essersi interessato allo studio delle nostre vestigia, i cui risultati raccolse in questo libro. Un testo dal quale, chiunque voglia cimentarsi in ricerche sul nostro passato, non può e non deve prescindere, nonostante le ingenuità e la scarsa scientificità di un lavoro di ricerca che, ricordiamolo sempre, fu affrontato non da un esperto archeologo, bensì da un avvocato con la passione per l’archeologia ed uno sviscerato amore per la sua terra natia. L’arduo tentativo che perseguo da anni di ricostruire l’evoluzione urbanistica del nostro comune, limitatamente alla parte dell’insediamento delimitato dalle mura ed alla sua estensione su via Borgo-Braida, senza il supporto di queste informazioni sarebbe stata impresa impossibile. Infatti, è anche grazie a G. B. Curto se oggi sappiamo di alcuni siti archeologici di fondamentale importanza e che rappresentano punti fermi per una ricostruzione attendibile. Ricostruzione resa difficile non solo dalla carenza di documenti ma anche dal sovrapporsi, alle poche notizie certe, di congetture e deduzioni errate che negli anni hanno finito per seppellire le tracce autentiche e che sono scaturite da una ricerca che, ancora oggi, erroneamente si ritiene esaurita con la traduzione del testo di un’epigrafe o con la consultazione bibliografica, ma che necessita invece di riscontri sul campo. Verifiche necessarie che non possono essere condotte senza adeguate cognizioni di urbanistica, indispensabili per individuare l’inscindibile rapporto che in ogni abitato esiste tra gli edifici specialistici (templi, teatri, anfiteatri, strutture difensive) e l’edilizia minore e tra questi e la viabilità, da e per gli altri insediamenti. Altrettanto importanti le cognizioni di tecnologia delle costruzioni e di storia dell’architettura, necessarie per individuare l’esatta natura delle tracce rinvenute e per saper riconoscere i caratteri distintivi di uno stile, così da metterci al riparo da errori banali, come il datare un intero edificio per la presenza nello stesso di una suppellettile di epoca precedente, elemento non ancorato indissolubilmente, né al suolo, né al resto del fabbricato e che, con buone probabilità, potrebbe essere stato trasportato da altri luoghi. Proprio sulla descrizione di alcuni errori commessi per la mancanza di una vera competenza e sulle ripercussioni di queste errate conclusioni sugli studi più recenti, si incentra questo mio intervento introduttivo al testo.

Stampato nel 1901 dalla Tipografia De Marsico di Sala Consilina, grazie ad un sussidio di £, 200 accordato con deliberato del Consiglio comunale datato 15/06/1900[v], “Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX”, cronologicamente si colloca tra “Istoria di Atena Lucana” del Dottor Michele Lacava, edito nel 1893 e “Atena antica”, della Dottoressa Elena D’Alto, stampato nel 1985. In quanto fonti più antiche, nonostante le palesi contraddizioni ed imprecisioni, i primi due testi hanno profondamente influenzato la cultura locale trovando, nel corso degli anni, cassa di risonanza in pubblicazioni di vario tipo, mappe dei rinvenimenti archeologici, totem informativi, siti internet, ecc, fino ad approdare di recente anche nelle audio guide del nostro Antiquarium, che le hanno divulgate accreditando le errate conclusioni dei loro autori, in seguito fatte proprie o riportate da studiosi più recenti.
Emblematico il caso del ritrovamento di ruderi nello slargo tra i palazzi Caracciolo e Caporale (l’attuale piazza V. Emanuele), erroneamente attribuiti ad un tempio dedicato a Giove, proprio dal Curto. Di parere totalmente diverso, il suo amico S. Macchiaroli a cui aveva chiesto consiglio e che, in una lettera del 22 agosto 1881, sulla base della sola approssimativa descrizione dei ritrovamenti fornitagli dallo stesso Curto, individua la vera natura dell’edificio rinvenuto e così la comunica al suo interlocutore: “Questi ammennicoli potrebbero dar luogo a diversi giudizi. Quindi potrebbe almanaccarsi essere un luogo pubblico di bagni, e di una costruzione che si prestava all’antica docciatura”. Sebbene la descrizione del rinvenimento da lui stesso riportati nel testo: “In tutto quello scavo grande quantità di ferruggine, con dei pezzi di ottone e piombo squagliato […] e nella parte concava di entrambe si rinvenne una grande ambollina di vetro bene sigillata, piena d’un liquido bianco come acqua. Disigillata, il suo liquido emetteva grande fragranza […]”  ed i dubbi sollevati da Macchiaroli suggeriscano una maggiore cautela nelle conclusioni sulla reale destinazione dell’edificio, Curto resta della sua idea. Ugualmente non hanno incertezze gli autori della mappa dei siti archeologici del nostro comune, realizzata alla fine degli anni 90 ed affissa nei pressi di palazzo Spagna, in cui si accredita l’interpretazione di Curto. Una decina di anni dopo la sua realizzazione, in occasione di lavori relativi ad un tratto fognario che attraversa piazza V. Emanuele, si rinvenne un’epigrafe che sconfessò definitivamente l’ipotesi del tempio, indicando invece con certezza l’ubicazione in quel luogo di un “balneum”, cioè di un edificio termale[vi], come correttamente intuito da Macchiaroli.
Altrettanto errata l’interpretazione del Curto dei reperti rinvenuti nell’insediamento storico all’interno delle mura medievali, in un’area compresa tra il castello e la chiesa di Santa Maria Maggiore, di cui riferisce: “Che vi abbia esistito il Teatro, basta per tutta prova la grande iscrizione iscovertavi ultimamente, e da noi descritta in detta parte terza. Invero nel 1880 quel Municipio, facendo ricostruire nell’abitato, sopra la piazza, una via, fu bisogno scavarla per quattro metri, dallo scompaginato suolo si riavesse quanto segue: […] Furono scavati pure N. 28 intagli di bianca pietra, ognuno di lunghezza un metro, larghezza e spessezza mezzo; e tra questi N. 8 che formavano uniti lunga epigrafe a caratteri cubitali, con ogni lettera di 30 centimetri e più d’altezza, la quale iscrizione accennava al Logeo del Teatro, che si leggeva sull’architrave: e diceva: Logismus quatuorvirorum sterne – Statius Marcellius inchoaver. Sicché era il frontespizio del Logeo teatrale, oggi palcoscenico”. Nella parte terza, cui l’autore rimanda, troviamo la sua traduzione dell’iscrizione: “Logismo de’ Quatuorviri fece lastricare – Sesto Marcello aveva cominciato – I decurioni posero”, cui segue l’interpretazione del reperto rinvenuto: Dunque in Atina, tra i Quatuorviri ve ne era uno appellato Logismo, che, omesso il nome proprio, prese quello denominativo dell’ufficio che rivestiva, cioè di prendere cura del Logeo teatrale […]. Il Logeo, coll’intero teatro, nei Municipii era sorretto dai Quatuorviri. Dal che risulta che in Atena fuvvi il Teatro Greco fino all’epoca Romana; e il cui Logeo era stato cominciato da Stazio Marcello – inchoaver. E fu il ceto dei Decurioni Atinati, rappresentante la Plebe, che, con detta epigrafe, vollero lasciarne il ricordo ai posteri nel frontespizio del Logeo – Decuriones posuerunt”.
Il solito Macchiaroli, in una lettera datata 8 agosto 1881, gli scriveva: “Vengo ora ad aprirti il mio animo intorno ai marmi letterati del Logeo di codesta antichissima Atena. […] Inoltre come sta scritto il concetto che ci si volle trasmettere dall’antichità, è meravigliosamente espresso senza invocare costruzioni greche, ebraiche, sanscrite ed altri vecchi idiomi! […] Or, Logismo, è per me uno dei quatuorviri di Atena […] Costui, cioè Logismus uno dei quatuorviri, incominciò il Logeo, inchoavar che poi Sesto Marcello spianò per intero, sottintendendo alla voce dell’infinito sterne, quella del finito che meglio calza alla manifestazione dell’idea. Il Logeo poi, al quale corse la mia mente, è non solo figlia del monumento trovato, cioè di un largo e lungo spianato di marmi, ma dell’idea pienamente acclarata tra gli archeologi, che l’antica Atena avesse un teatro e non già un anfiteatro […]”.
Ancora una volta, Macchiaroli aveva visto giusto. La corretta traduzione dell’iscrizione, oggi conservata nell’Antiquarium, infatti recita: “ – Logismo – Marcello, supremi magistrati per l’amministrazione  della giustizia, incominciarono a pavimentare il foro con denaro (pubblico o proprio) per decreto dei decurioni”
La formazione classica di Curto, indubbiamente di buon livello, è però inadeguata a garantirgli la corretta interpretazione dei rinvenimenti che i lavori dell’epoca riportano alla luce e che necessita, invece, di una vera competenza archeologica con esperienza sul campo. Evidente, infatti, l’assenza di un metodo scientifico nei suoi studi: nessuno schizzo del ritrovamento, misure approssimative e che vengono restituite indifferentemente, ora in metri, ora in palmi, descrizione dei siti mai dettagliata e senza precisi punti di riferimento. Ingenuità a cui aggiungerei anche il mio personale dubbio sulle reali dimensioni degli scavi, che ritengo palesemente esagerate in più occasioni[vii] e che potrebbero essere spiegate dal suddetto campanilismo.
Tornando ai ritrovamenti in occasione dei lavori di costruzione di palazzo Caporale, viene naturale chiedersi come mai la loro particolare natura non ha suscitato in Curto il benché minimo dubbio. Forse perché ai suoi occhi i “[…] grossi blocchi o massi di pietra affaccettati […] e tutto, come avessero appartenuto a grande circolare edificio” s’incastrano perfettamente con il contenuto dell’epigrafe XXVI, rinvenuta nel muro esterno della Taverna del Principe, quindi a pochi passi di distanza dall’area degli scavi e da quella che, per lui, indubbiamente “è la chiara dimostrazione della esistenza del Tempio di Giove in Atena”.
Anche in questo caso, come per il ritrovamento del supposto teatro, Curto è ingannato da errori di lettura del dato rinvenuto, che non riesce a riconoscere proprio perché, come abbiamo già detto, a digiuno di basilari cognizioni di urbanistica che lo portano ad una disposizione dei monumenti restituita nelle sue pagine prescindendo da una necessaria visione d’insieme dell’intero insediamento. In occasione del rinvenimento del supposto teatro, la forzatura è talmente evidente che dovrà ammettere: “Non possiamo poi dire il perché lo si trovava nella Cittadella, cioè nell’Acropoli. Avrà dovuto essere rifatto, come prima, dopo la distruzione dell’antica Atena […]”. Palese la sua difficoltà di fronte a quelle che ritiene le vestigia di un teatro, rinvenute in un sito dalle caratteristiche inadeguate ad ospitarlo e che lo portano a perdersi dietro ipotesi tanto fantasiose, quanto insostenibili, da cui l’amico Macchiaroli lo mette inutilmente in guardia[viii].
Del resto, ritengo scontato che Curto conoscesse bene le opere di chi, prima di lui, aveva scritto sull'antica Atena, così come credo sia altrettanto logico ritenere che ogni sua conclusione venisse vagliata anche alla luce delle ipotesi scaturite dai precedenti studi: dai più remoti fino all'allora recente lavoro di Lacava. Sa, quindi, che proprio nella stessa area in cui lui è convinto di aver trovato le tracce di un teatro, quest’ultimo ha invece ipotizzato l’esistenza di un tempio o del foro e sa che vecchi documenti, citati anche dallo stesso Lacava, attestavano l’esistenza di tre porte nella cinta muraria di Atena: porta Parva a sud-ovest, porta di Roma a sud-est e porta d’Aquila, l’unica oggi ancora esistente, a nord-ovest. Con le necessarie conoscenze dell’urbanistica romana, avrebbe concluso che la presenza di porte ad est e ad ovest implicano automaticamente l’esistenza di un percorso che le collega e che è continuazione della via che secondo questa direttrice conduce dentro la cittadella. Di prassi, nell'urbanistica dell’antica Roma, vi era anche un collegamento ortogonale al primo che collegava le porte lungo questo secondo asse. La provata porta sud di Atena però non si contrapponeva ad un ulteriore varco a nord, in quanto il Vallone Arenaccio rende di fatto inaccessibile questo versante dell’abitato. Lì dove i principali assi dell’urbanistica romana e cioè il Decumano (il percorso con andamento Est-Ovest) ed il Cardo (il percorso con direzione Nord-Sud) s’incontravano, solitamente sorgeva il Foro, luogo rappresentato da una spianata rettangolare che ben combacia con la descrizione data dallo stesso Curto al Macchiaroli, che nella lettera fa riferimento al “monumento trovato, cioè di un largo e lungo spianato di marmi”.
Detto per inciso, la Dottoressa Elena D’Alto, nella sua pubblicazione del 1985 abbracciò la tesi del Foro: “il Borgo medievale ripercorreva l’antico decumano che continuava la salita verso il foro, raro esempio di foro alto e lastricato”[ix] dimostrando la sua indubbia conoscenza dell’urbanistica romana e del riutilizzo di edifici e percorsi, in epoca medievale.
Appare chiaro, a questo punto, che Curto basa le sue convinzioni su congetture che, a loro volta, si fondano pericolosamente su di un assioma che ha ereditato proprio da Lacava, che scrive: Di edifizii pubblici, le iscrizioni non parlano; ma naturalmente la città, dovè avere teatri ed anfiteatri, il foro, le terme, e i pubblici condotti di acqua”[x]. Niente più di un’opinione quella di Lacava, che però trova terreno fertile nel campanilismo di Curto il quale, anche sulla scorta di quanto scritto da più antichi autori, rincara la dose a quel dovè avere teatri ed anfiteatri”, asserendo: Evvi chi vi ammettè il solo Anfiteatro, chi l’uno e l’altro, cioè Teatro e Anfiteatro; e non poteva mancare in una grandiosa città come Atina.”
Lacava vuole[xi] l’anfiteatro nell'attuale piazza V. Emanuele, probabilmente per la forma curva dei manufatti trovati e le ampie dimensioni del sito che li ospitano e, forse, anche perché vicino all'epigrafe che ne testimonia l’esistenza (la numero XXIV in Curto, rinvenuta ancora una volta nella fabbrica della Taverna del Principe). Nel contempo ritiene che “Un edifizio, possibilmente teatro, dové esistere nell'area che si estende all'angolo orientale della casa De Marino, ad andare verso la cappella di San Giuseppe Murano”[xii]. Teatro e non più anfiteatro, come invece da lui stesso precedentemente asserito[xiii], quindi una traccia per niente chiara che, alla luce del ritrovamento in occasione della costruzione di palazzo Caporale, potrebbe invece appartenere a quei “vestigi” di teatro documentati dal monaco Luca Mandelli nella seconda metà del 1600, che però nel suo scritto non li ha ubicati[xiv].
Dato ugualmente poco chiaro anche per Curto che, convinto di aver collocato correttamente il teatro nei pressi della chiesa di Santa Maria Maggiore, conclude che i ruderi rinvenuti nei pressi di palazzo Marino non possono che appartenere all'anfiteatro, anche perché: “E di vero, una grandiosa città come si era la nostra, guerriera sotto gli antichi dominatori, non poteva essere privata di quel pubblico luogo, dove si esercitavano gli spettacoli ed i ludi. […] un’area capiente per migliaia di persone […]; di conseguenza, nella largura dell’attuale piazza V. Emanuele può collocare, senza tema di smentita, il tempio di Giove. In tutto questo affannarsi a collegare gli edifici alle epigrafi che li testimoniano: Sicché noi niente abbiamo inventato […] Sicuri poi di non essere affatto smentiti, atteso i luoghi ed i fatti son quelli”, sembra però dimenticare che, nell'elenco dei grandi monumenti che non potevano mancare in quella grande città che voleva fosse l’antica Atena, vi doveva essere anche il Foro, che ritengo plausibile abbia sacrificato perché gli mancano reperti attestanti la sua esistenza.
Come già detto, Curto, come Lacava prima di lui, non riesce a cogliere l’importanza di una necessaria visione d’insieme dell’insediamento e non attribuisce la giusta importanza nemmeno all'anomalia della concentrazione di più epigrafi nello stesso luogo, evidentemente trasportatevi, forse anche da luoghi d’origine ben lontani, per essere reimpiegate in nuove fabbriche[xv]. Va infine detto che, secondo T. Mommsen, considerato il più grande classicista del XIX secolo, proprio l’epigrafe che testimonierebbe un avvenuto combattimento tra due gladiatori e quindi: soltanto per deduzione l’esistenza di un anfiteatro nell'antica Atina, è un falso storico[xvi]. Se così fosse, proprio le fonti verso le quali Curto nutre cieca fiducia potrebbero essere inattendibili, così come i vecchi manoscritti del 600, infarciti da fantasticherie dei loro autori[xvii].
In conclusione, riguardo alla vera natura dei ruderi testimoniati nei pressi di palazzo Marino, ancora non vi è alcuna certezza perché mai supportati da una concreta prova archeologica. Eppure, nonostante la totale assenza di conferme, il contenuto degli scritti su Atena di autori passati e più recenti, abbracciano indifferentemente le discordanti ipotesi degli autori più antichi, senza però addurre alcun valido argomento a sostegno dell’una o dell’altra ipotesi. In ogni modo, per far luce sulla reale natura dei ruderi testimoniati, ritengo sia necessario innanzitutto evitare di ripetere pedissequamente quanto scritto da altri in passato ed operare invece un serio approfondimento sull'attendibilità di queste testimonianze, partendo proprio dall'accertamento della reale presenza in Atena degli stessi “testimoni”. Ricerca che potrebbe chiarirci se questi autori si siano soltanto limitati a riportare e congetturare su quanto riferito da una più antica fonte giudicata attendibile: il suddetto monaco agostiniano Luca Mandelli di Diano, il più accreditato storico locale, che a sua volta avrebbe potuto interpretare in modo non corretto quelli che ritiene essere “i vestigi d’un magnifico teatro”[xviii].
In sintesi, nei riguardi di un teatro, od anfiteatro per dirla alla Macchiaroli[xix], da oltre un secolo nulla di “archeologicamente nuovo” sotto il sole e niente di più della meccanica ripetizione di assiomi su cui si è voluto fortemente basare un teorema ancora lontano dall'essere dimostrato. Sulla scorta delle ricerche che conduco da anni, sulle informazioni trasmessemi da “nonna” Giovanna e poiché io stesso sono stato testimone di alcuni ritrovamenti, passati sotto silenzio, durante la realizzazione della rete fognaria in via Borgo-Braida negli anni 70, sono giunto ad una conclusione plausibile che potrebbe far chiarezza sull'annoso dilemma. La complessità delle argomentazioni richiede però una trattazione a parte, che spero di ultimare a breve.
Concludo con un’ultima precisazione, che ancora una volta mette in guardia dall'accettare senza discernimento quanto riportato dalle antiche fonti: Curto attribuisce al prete D. Elia Marino la vendita di una statua di Ercole in oro massiccio ma, come già detto, il “prete” era Don Severiano Marino, mentre Don Elia era il fratello. Detto Don Elia, con la sua famiglia, abitò fino alla morte la prima residenza dei Marino, nel cui portale si legge la data 1760 e che, ulteriore errore, Curto riporta come “le case Mango”, famiglia che non ha edificato il palazzo ma che lo ha soltanto acquistato ottanta anni dopo la sua costruzione, così come soltanto un secolo dopo la sua costruzione fu ceduta anche la residenza più recente, la stessa dalla quale scrivo queste brevi note[xx].

Atena Lucana, 21/04/2016

Arch. Angelo Sangiovanni




NOTE:

[i] La notizia, che veniva tramandata come leggenda ha, invece, fondamento storico. Infatti, il Vallo di Diano nel Pleistocenico era un lago, prosciugatosi in epoca storica. Alla nascita della leggenda contribuì probabilmente Paolo Eterni che, nonostante le precise informazioni tramandate da Cassiodoro sul Battistero di San Giovanni in Fonti, indica questo edificio come il “Lavacro di Diana” e, richiamando “Le metamorfosi” di Ovidio, lo descrive come il mitico luogo dove la dea fu vista nuda dal cacciatore Atteone.
[ii] Questo e tanto altro di interessante ed inedito è emerso dalle mie ricerche, compresa l’esistenza di un altro e più antico edificio di loro proprietà, di cui si era totalmente persa memoria ed il cui ritrovamento in antichi documenti, è fondamentale per un tentativo di ricostruzione attendibile dello sviluppo dell’urbanistica atinate.
[iii] Nei documenti dell’epoca, insieme a Severiano, lo troviamo anche come Xaverianus o, meno frequentemente, come Saveriano.
[iv] Tale strafalcione, che indicava il palazzo come “Di Santi” e cioè con il nome dei primi acquirenti, che poco tempo dopo ne rivendettero una parte alla mia famiglia, fu riportato tra il 2004 ed il 2005, sia nel totem posizionato nei pressi del mercato coperto, sia nel non certo impeccabile contributo atinate al libro "Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L'opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano", stampato a cura di G. Ferrari per la SGA Editore, per poi approdare, rimbalzando per anni tra vari siti internet, sulle audio guide dell’Antiquarium di Atena Lucana. Memore della scarsa attenzione data in passato da chi di competenza al sottoscritto ed al pericolo presagito, questa volta ho segnalato la presenza del falso storico in via ufficiale, chiedendo ed ottenendo il ritiro delle audio guide dall’Antiquarium comunale, in cui erano riportate, oltre a questa, altre notizie storiche prive di fondamento.
[v] Langone Michele Ciro Lu cuntu ri l’atinati Buccino (Sa), Grafica Martino, 2015
[vi] Ringrazio la Dott.ssa Anna di Santo, funzionario responsabile dell’Ufficio Beni Archeologici di Sala Consilina, per avermi confermato la natura del prezioso reperto, ora conservato nei depositi del Municipio.
[vii] Ritengo altamente improbabile la profondità dello scavo per le fondazioni di palazzo Caporale, da lui riferite come superiori ai 10 metri, cioè pari quasi all'altezza del fabbricato fuori terra. Prestando fede a questa misura come quota del ritrovamento, dovremmo spostare anche il piano di campagna del luogo in epoca romana, che determinerebbe un salto di quota enorme rispetto a quella del piano terra della vicina torre del XIII sec. In ogni caso, la profondità riportata dal Curto dei ruderi del supposto tempio di Giove, discorda anche con quella del ritrovamento dell’iscrizione del balneum, rinvenuta molto più in superficie. Stessa perplessità ce l’ho anche per i 40 palmi dell’altezza del muro dell’anfiteatro trovato in via Borgo-Braida che abbasserebbero il piano di campagna di circa 11 metri. Non riesco poi ad immaginare quale evento abbia potuto causare la completa sepoltura di un edificio così imponente, né chi e con quali soldi avrebbe finanziato l’enorme scavo ed il successivo rinterro testimoniato da Curto. Lo stesso dicasi per la spesa e la difficoltà dello scavo in roccia profondo 4 metri, in occasione del ritrovamento del “Logeo”
[viii] Si aggiunga a questo, che nel sito del ritrovamento, indicato con sufficiente precisione dalla Dott.ssa Elena D’Alto nel suo libro, ancora oggi sono affioranti le rocce che fanno da fondazione per le case dell’abitato dentro le mura e che non denunciano alcun intervento per la loro trasformazione in gradinate.
[ix] D’Alto Elena, Atena antica, Laveglia Editore, Salerno, 1985
[x] Lacava Michele, Istoria di Atena Lucana Napoli: R. Tip. F. Giannini & F., 1893.
[xi] Uso il temine “vuole” e non “attribuisce” poiché do per scontato che il Dott. Lacava non abbia mai potuto vedere i lavori di scavo per la realizzazione di palazzo Caporale ed i relativi ruderi rinvenuti in quanto, come risulta da più contributi storici sulla vita del Dott. Lacava, reperibili anche online, questi nel 1866 non poteva essere ad Atena Lucana in quanto medico al seguito di Garibaldi a quel tempo impegnato a Ravenna nella guerra contro gli austriaci. Lacava ebbe modo di visionare i ruderi di Atena soltanto tra il settembre ed il novembre del 1882 quando, insieme a F. Bernabei, accompagnò l’archeologo francese F. Lenormant nel suo viaggio di studio tra Lucania, Vallo di Diano e Cilento, condotto tra il 1880 ed il 1883. Da qui ritengo derivi l’incertezza, di cui si dirà appresso, sull'attribuzione dei ruderi visionati nei pressi di palazzo Marino e che Lenormant attribuisce ad un anfiteatro. Incertezza quella di Lacava che costituisce, a mio giudizio, un importante indizio.
[xii] Lacava Michele, op. cit.  pag. 73.
[xiii] “Nell’attuale paese vicino all’abitazione del signor Marini sono appariscenti gli avanzi di un anfiteatro” Lacava Michele, op. cit., pag. 50, nota 2.
[xiv] Didier Arturo, Diano: città antica e nobile, Teggiano, 1997
[xv] I Caracciolo reimpiegarono le pietre della torre e di parte del castello, ormai diroccati, per la costruzione del palazzo nell’attuale piazza V. Emanuele.
[xvi] Come del resto, sempre il Mommsen, giudica apocrifa anche la XXIX, che fa invece un chiaro riferimento ad un anfiteatro. 
[xvii] Ho avuto modo in passato di dimostrare con un’esemplificazione grafica che quanto asserito da Paolo Eterni nella metà del XVII sec. sulla torre di Atena, fossero delle fantasticherie. Quanto invece da lui riportato in riferimento alle vestigia di un antico teatro, non si discosta da quanto affermato da Luca Mandelli.
[xviii] Didier Arturo, op. cit.
[xixMacchiaroli Stefano “Diano e l’omonima sua valle”, Gabriele Rondinella Editore, Napoli, 1868.
[xx] Ulteriore precisazione, nella precisazione, a dimostrazione che nessuno è immune da errore. In realtà mi è sfuggito il dettaglio, importante, che il Don Elia prete a cui si riferisce Curto non è il fratello minore dell'Abate Severiano, ma un loro discendente. Infatti, Curto si riferisce ad un ritrovamento avvenuto nel 1836, quindi avvenuto dopo la morte di Elia e Severiano.




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