martedì 27 dicembre 2016

Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX” - NOTE INTRODUTTIVE AL TESTO



Rileggendo il mio contributo alla ristampa dei libri mi sono accorto di aver inviato per errore la bozza e non la stesura definitiva. Purtroppo non c'è stato il tempo per sostituire lo scritto, quindi dovrò aspettare una ulteriore ristampa per poterlo fare. Sebbene in occasione del mio intervento alla presentazione abbia compensato fornendo le informazioni non riportate nella bozza, a beneficio di chi non era presente ed è interessato all'argomento, scusandomi per la mia disattenzione, riporto qui di seguito il testo integrale della stesura definitiva,


Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana
dai tempi incerti fino al secolo XIX”

NOTE INTRODUTTIVE AL TESTO


Quando il Presidente della Pro Loco mi ha chiesto di scrivere l’introduzione ad uno dei tre testi che si sono voluti ristampare, la scelta di “Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX”, scritto dall'Avvocato Giovan Battista Curto, è stata fortemente influenzata, anzi direi: obbligata, dal legame affettivo che da oltre quarant’anni mi lega a questo libro.
Il primo ricordo, infatti, risale all'infanzia. I coniugi Giovanna Scotese ed Angelo Lopardo, zii di mia madre e proprietari di quella parte di Palazzo Marino in cui sono nato e cresciuto ed in cui ancora oggi vivo con la mia famiglia ed ho il mio Studio di Architettura, ne custodivano gelosamente una copia nella cassettiera della loro camera da letto. Tra le variegate letture di “nonna” Giovanna, che aveva imparato a leggere grazie a qualche sporadica lezione presa dal fratello più grande, vi fu anche questo libro e, sebbene la sua scarsa scolarizzazione le impedisse di comprendere la complessità delle informazioni in esso contenute, ne acquisì e memorizzò alcune che mi trasmise con naturalezza ed ingenuità, mischiate alle leggende popolari ed ai suoi ricordi di Atena di inizi 900. Fu così che, nell'inconsapevolezza di entrambi, mi fornì notizie esclusive di cui solo col tempo ho capito l’inestimabile valore.
Dei racconti di “nonna” Giovanna, preferivo quello della torre del castello tanto alta che dalla sua cima si poteva vedere il mare del golfo di Salerno e ancor più quello di Atteone tramutato in cervo dalla dea Diana per punizione, perché l’aveva spiata mentre si faceva il bagno nuda nel lago che un tempo c’era nella nostra valle[i] e che fu poi sbranato dai suoi stessi cani mentre tentava di mettersi in salvo sulla collina di Atena. Più di tutti però mi affascinava quello del presunto anfiteatro sepolto proprio nella largura davanti la nostra abitazione “un palazzo appartenuto ai Marino, una famiglia nobile che, andata in bassa fortuna, l’ha dovuto vendere”.
Infatti, i Marino, sebbene non nobili ma possidenti, sono stati un’antica ed illustre famiglia di Atena, tanto che poterono fregiarsi di uno stemma (purtroppo trafugato negli anni 80) ed ottenere il privilegio della sepoltura, di alcuni membri, all’interno della Chiesa Madre di Santa Maria Maggiore[ii].
Alla luce di ciò, si comprenderà quanto il riferirsi al suddetto palazzo con nomi diversi da quello del suo committente e cioè dell’abate Severiano, come si evince chiaramente dal cartiglio sul portale in cui si legge:
D. SEV. AB. MAR F.F. A.D. 1781,
è un marchiano strafalcione storico”[iii] che interrompe, tanto pericolosamente quanto inutilmente, la continuità con gli antichi documenti, tra i quali anche questi fondamentali testi sulla nostra storia che si vogliono giustamente valorizzare e tramandare attraverso la ristampa ed in cui il palazzo Marino è più volte menzionato proprio in relazione al rinvenimento, nei suoi pressi, di importanti vestigia[iv].
Purtroppo, quando ancora non avevo raggiunto l’età per potermene prendere cura, il libro andò smarrito e dovettero passare molti anni prima che mi si presentasse nuovamente l’occasione di averlo tra le mani. Avvenne alla fine degli anni 80 e, ancora una volta, il ricordo del libro è legato a quello di una persona che mi è stata molto cara: il professor Gaetano Lamattina. A quei tempi mio padre dirigeva l’ufficio postale di Caggiano e grazie a lui ebbi modo di conoscere quello che è stato, non solo uno degli uomini più acculturati del Vallo di Diano, ma anche uno dei più seri ed appassionati storici locali. Fu in occasione di uno dei nostri incontri che mi donò una copia fotostatica del libro, preso in prestito alla Biblioteca Apostolica Vaticana, una delle tante che frequentava abitualmente per le sue ricerche. Personalizzata in questi miei anni di studi con sottolineature e note in continuo aggiornamento, ancora la conservo gelosamente, così come “nonna” Giovanna aveva conservato per anni la stesura originale.
Concludo questa mia breve ma utile divagazione, con un doveroso tributo di riconoscenza all'avvocato Curto, uomo di cultura e primo fra gli atinati ad essersi interessato allo studio delle nostre vestigia, i cui risultati raccolse in questo libro. Un testo dal quale, chiunque voglia cimentarsi in ricerche sul nostro passato, non può e non deve prescindere, nonostante le ingenuità e la scarsa scientificità di un lavoro di ricerca che, ricordiamolo sempre, fu affrontato non da un esperto archeologo, bensì da un avvocato con la passione per l’archeologia ed uno sviscerato amore per la sua terra natia. L’arduo tentativo che perseguo da anni di ricostruire l’evoluzione urbanistica del nostro comune, limitatamente alla parte dell’insediamento delimitato dalle mura ed alla sua estensione su via Borgo-Braida, senza il supporto di queste informazioni sarebbe stata impresa impossibile. Infatti, è anche grazie a G. B. Curto se oggi sappiamo di alcuni siti archeologici di fondamentale importanza e che rappresentano punti fermi per una ricostruzione attendibile. Ricostruzione resa difficile non solo dalla carenza di documenti ma anche dal sovrapporsi, alle poche notizie certe, di congetture e deduzioni errate che negli anni hanno finito per seppellire le tracce autentiche e che sono scaturite da una ricerca che, ancora oggi, erroneamente si ritiene esaurita con la traduzione del testo di un’epigrafe o con la consultazione bibliografica, ma che necessita invece di riscontri sul campo. Verifiche necessarie che non possono essere condotte senza adeguate cognizioni di urbanistica, indispensabili per individuare l’inscindibile rapporto che in ogni abitato esiste tra gli edifici specialistici (templi, teatri, anfiteatri, strutture difensive) e l’edilizia minore e tra questi e la viabilità, da e per gli altri insediamenti. Altrettanto importanti le cognizioni di tecnologia delle costruzioni e di storia dell’architettura, necessarie per individuare l’esatta natura delle tracce rinvenute e per saper riconoscere i caratteri distintivi di uno stile, così da metterci al riparo da errori banali, come il datare un intero edificio per la presenza nello stesso di una suppellettile di epoca precedente, elemento non ancorato indissolubilmente, né al suolo, né al resto del fabbricato e che, con buone probabilità, potrebbe essere stato trasportato da altri luoghi. Proprio sulla descrizione di alcuni errori commessi per la mancanza di una vera competenza e sulle ripercussioni di queste errate conclusioni sugli studi più recenti, si incentra questo mio intervento introduttivo al testo.

Stampato nel 1901 dalla Tipografia De Marsico di Sala Consilina, grazie ad un sussidio di £, 200 accordato con deliberato del Consiglio comunale datato 15/06/1900[v], “Notizie storiche sulla destrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX”, cronologicamente si colloca tra “Istoria di Atena Lucana” del Dottor Michele Lacava, edito nel 1893 e “Atena antica”, della Dottoressa Elena D’Alto, stampato nel 1985. In quanto fonti più antiche, nonostante le palesi contraddizioni ed imprecisioni, i primi due testi hanno profondamente influenzato la cultura locale trovando, nel corso degli anni, cassa di risonanza in pubblicazioni di vario tipo, mappe dei rinvenimenti archeologici, totem informativi, siti internet, ecc, fino ad approdare di recente anche nelle audio guide del nostro Antiquarium, che le hanno divulgate accreditando le errate conclusioni dei loro autori, in seguito fatte proprie o riportate da studiosi più recenti.
Emblematico il caso del ritrovamento di ruderi nello slargo tra i palazzi Caracciolo e Caporale (l’attuale piazza V. Emanuele), erroneamente attribuiti ad un tempio dedicato a Giove, proprio dal Curto. Di parere totalmente diverso, il suo amico S. Macchiaroli a cui aveva chiesto consiglio e che, in una lettera del 22 agosto 1881, sulla base della sola approssimativa descrizione dei ritrovamenti fornitagli dallo stesso Curto, individua la vera natura dell’edificio rinvenuto e così la comunica al suo interlocutore: “Questi ammennicoli potrebbero dar luogo a diversi giudizi. Quindi potrebbe almanaccarsi essere un luogo pubblico di bagni, e di una costruzione che si prestava all’antica docciatura”. Sebbene la descrizione del rinvenimento da lui stesso riportati nel testo: “In tutto quello scavo grande quantità di ferruggine, con dei pezzi di ottone e piombo squagliato […] e nella parte concava di entrambe si rinvenne una grande ambollina di vetro bene sigillata, piena d’un liquido bianco come acqua. Disigillata, il suo liquido emetteva grande fragranza […]”  ed i dubbi sollevati da Macchiaroli suggeriscano una maggiore cautela nelle conclusioni sulla reale destinazione dell’edificio, Curto resta della sua idea. Ugualmente non hanno incertezze gli autori della mappa dei siti archeologici del nostro comune, realizzata alla fine degli anni 90 ed affissa nei pressi di palazzo Spagna, in cui si accredita l’interpretazione di Curto. Una decina di anni dopo la sua realizzazione, in occasione di lavori relativi ad un tratto fognario che attraversa piazza V. Emanuele, si rinvenne un’epigrafe che sconfessò definitivamente l’ipotesi del tempio, indicando invece con certezza l’ubicazione in quel luogo di un “balneum”, cioè di un edificio termale[vi], come correttamente intuito da Macchiaroli.
Altrettanto errata l’interpretazione del Curto dei reperti rinvenuti nell’insediamento storico all’interno delle mura medievali, in un’area compresa tra il castello e la chiesa di Santa Maria Maggiore, di cui riferisce: “Che vi abbia esistito il Teatro, basta per tutta prova la grande iscrizione iscovertavi ultimamente, e da noi descritta in detta parte terza. Invero nel 1880 quel Municipio, facendo ricostruire nell’abitato, sopra la piazza, una via, fu bisogno scavarla per quattro metri, dallo scompaginato suolo si riavesse quanto segue: […] Furono scavati pure N. 28 intagli di bianca pietra, ognuno di lunghezza un metro, larghezza e spessezza mezzo; e tra questi N. 8 che formavano uniti lunga epigrafe a caratteri cubitali, con ogni lettera di 30 centimetri e più d’altezza, la quale iscrizione accennava al Logeo del Teatro, che si leggeva sull’architrave: e diceva: Logismus quatuorvirorum sterne – Statius Marcellius inchoaver. Sicché era il frontespizio del Logeo teatrale, oggi palcoscenico”. Nella parte terza, cui l’autore rimanda, troviamo la sua traduzione dell’iscrizione: “Logismo de’ Quatuorviri fece lastricare – Sesto Marcello aveva cominciato – I decurioni posero”, cui segue l’interpretazione del reperto rinvenuto: Dunque in Atina, tra i Quatuorviri ve ne era uno appellato Logismo, che, omesso il nome proprio, prese quello denominativo dell’ufficio che rivestiva, cioè di prendere cura del Logeo teatrale […]. Il Logeo, coll’intero teatro, nei Municipii era sorretto dai Quatuorviri. Dal che risulta che in Atena fuvvi il Teatro Greco fino all’epoca Romana; e il cui Logeo era stato cominciato da Stazio Marcello – inchoaver. E fu il ceto dei Decurioni Atinati, rappresentante la Plebe, che, con detta epigrafe, vollero lasciarne il ricordo ai posteri nel frontespizio del Logeo – Decuriones posuerunt”.
Il solito Macchiaroli, in una lettera datata 8 agosto 1881, gli scriveva: “Vengo ora ad aprirti il mio animo intorno ai marmi letterati del Logeo di codesta antichissima Atena. […] Inoltre come sta scritto il concetto che ci si volle trasmettere dall’antichità, è meravigliosamente espresso senza invocare costruzioni greche, ebraiche, sanscrite ed altri vecchi idiomi! […] Or, Logismo, è per me uno dei quatuorviri di Atena […] Costui, cioè Logismus uno dei quatuorviri, incominciò il Logeo, inchoavar che poi Sesto Marcello spianò per intero, sottintendendo alla voce dell’infinito sterne, quella del finito che meglio calza alla manifestazione dell’idea. Il Logeo poi, al quale corse la mia mente, è non solo figlia del monumento trovato, cioè di un largo e lungo spianato di marmi, ma dell’idea pienamente acclarata tra gli archeologi, che l’antica Atena avesse un teatro e non già un anfiteatro […]”.
Ancora una volta, Macchiaroli aveva visto giusto. La corretta traduzione dell’iscrizione, oggi conservata nell’Antiquarium, infatti recita: “ – Logismo – Marcello, supremi magistrati per l’amministrazione  della giustizia, incominciarono a pavimentare il foro con denaro (pubblico o proprio) per decreto dei decurioni”
La formazione classica di Curto, indubbiamente di buon livello, è però inadeguata a garantirgli la corretta interpretazione dei rinvenimenti che i lavori dell’epoca riportano alla luce e che necessita, invece, di una vera competenza archeologica con esperienza sul campo. Evidente, infatti, l’assenza di un metodo scientifico nei suoi studi: nessuno schizzo del ritrovamento, misure approssimative e che vengono restituite indifferentemente, ora in metri, ora in palmi, descrizione dei siti mai dettagliata e senza precisi punti di riferimento. Ingenuità a cui aggiungerei anche il mio personale dubbio sulle reali dimensioni degli scavi, che ritengo palesemente esagerate in più occasioni[vii] e che potrebbero essere spiegate dal suddetto campanilismo.
Tornando ai ritrovamenti in occasione dei lavori di costruzione di palazzo Caporale, viene naturale chiedersi come mai la loro particolare natura non ha suscitato in Curto il benché minimo dubbio. Forse perché ai suoi occhi i “[…] grossi blocchi o massi di pietra affaccettati […] e tutto, come avessero appartenuto a grande circolare edificio” s’incastrano perfettamente con il contenuto dell’epigrafe XXVI, rinvenuta nel muro esterno della Taverna del Principe, quindi a pochi passi di distanza dall’area degli scavi e da quella che, per lui, indubbiamente “è la chiara dimostrazione della esistenza del Tempio di Giove in Atena”.
Anche in questo caso, come per il ritrovamento del supposto teatro, Curto è ingannato da errori di lettura del dato rinvenuto, che non riesce a riconoscere proprio perché, come abbiamo già detto, a digiuno di basilari cognizioni di urbanistica che lo portano ad una disposizione dei monumenti restituita nelle sue pagine prescindendo da una necessaria visione d’insieme dell’intero insediamento. In occasione del rinvenimento del supposto teatro, la forzatura è talmente evidente che dovrà ammettere: “Non possiamo poi dire il perché lo si trovava nella Cittadella, cioè nell’Acropoli. Avrà dovuto essere rifatto, come prima, dopo la distruzione dell’antica Atena […]”. Palese la sua difficoltà di fronte a quelle che ritiene le vestigia di un teatro, rinvenute in un sito dalle caratteristiche inadeguate ad ospitarlo e che lo portano a perdersi dietro ipotesi tanto fantasiose, quanto insostenibili, da cui l’amico Macchiaroli lo mette inutilmente in guardia[viii].
Del resto, ritengo scontato che Curto conoscesse bene le opere di chi, prima di lui, aveva scritto sull'antica Atena, così come credo sia altrettanto logico ritenere che ogni sua conclusione venisse vagliata anche alla luce delle ipotesi scaturite dai precedenti studi: dai più remoti fino all'allora recente lavoro di Lacava. Sa, quindi, che proprio nella stessa area in cui lui è convinto di aver trovato le tracce di un teatro, quest’ultimo ha invece ipotizzato l’esistenza di un tempio o del foro e sa che vecchi documenti, citati anche dallo stesso Lacava, attestavano l’esistenza di tre porte nella cinta muraria di Atena: porta Parva a sud-ovest, porta di Roma a sud-est e porta d’Aquila, l’unica oggi ancora esistente, a nord-ovest. Con le necessarie conoscenze dell’urbanistica romana, avrebbe concluso che la presenza di porte ad est e ad ovest implicano automaticamente l’esistenza di un percorso che le collega e che è continuazione della via che secondo questa direttrice conduce dentro la cittadella. Di prassi, nell'urbanistica dell’antica Roma, vi era anche un collegamento ortogonale al primo che collegava le porte lungo questo secondo asse. La provata porta sud di Atena però non si contrapponeva ad un ulteriore varco a nord, in quanto il Vallone Arenaccio rende di fatto inaccessibile questo versante dell’abitato. Lì dove i principali assi dell’urbanistica romana e cioè il Decumano (il percorso con andamento Est-Ovest) ed il Cardo (il percorso con direzione Nord-Sud) s’incontravano, solitamente sorgeva il Foro, luogo rappresentato da una spianata rettangolare che ben combacia con la descrizione data dallo stesso Curto al Macchiaroli, che nella lettera fa riferimento al “monumento trovato, cioè di un largo e lungo spianato di marmi”.
Detto per inciso, la Dottoressa Elena D’Alto, nella sua pubblicazione del 1985 abbracciò la tesi del Foro: “il Borgo medievale ripercorreva l’antico decumano che continuava la salita verso il foro, raro esempio di foro alto e lastricato”[ix] dimostrando la sua indubbia conoscenza dell’urbanistica romana e del riutilizzo di edifici e percorsi, in epoca medievale.
Appare chiaro, a questo punto, che Curto basa le sue convinzioni su congetture che, a loro volta, si fondano pericolosamente su di un assioma che ha ereditato proprio da Lacava, che scrive: Di edifizii pubblici, le iscrizioni non parlano; ma naturalmente la città, dovè avere teatri ed anfiteatri, il foro, le terme, e i pubblici condotti di acqua”[x]. Niente più di un’opinione quella di Lacava, che però trova terreno fertile nel campanilismo di Curto il quale, anche sulla scorta di quanto scritto da più antichi autori, rincara la dose a quel dovè avere teatri ed anfiteatri”, asserendo: Evvi chi vi ammettè il solo Anfiteatro, chi l’uno e l’altro, cioè Teatro e Anfiteatro; e non poteva mancare in una grandiosa città come Atina.”
Lacava vuole[xi] l’anfiteatro nell'attuale piazza V. Emanuele, probabilmente per la forma curva dei manufatti trovati e le ampie dimensioni del sito che li ospitano e, forse, anche perché vicino all'epigrafe che ne testimonia l’esistenza (la numero XXIV in Curto, rinvenuta ancora una volta nella fabbrica della Taverna del Principe). Nel contempo ritiene che “Un edifizio, possibilmente teatro, dové esistere nell'area che si estende all'angolo orientale della casa De Marino, ad andare verso la cappella di San Giuseppe Murano”[xii]. Teatro e non più anfiteatro, come invece da lui stesso precedentemente asserito[xiii], quindi una traccia per niente chiara che, alla luce del ritrovamento in occasione della costruzione di palazzo Caporale, potrebbe invece appartenere a quei “vestigi” di teatro documentati dal monaco Luca Mandelli nella seconda metà del 1600, che però nel suo scritto non li ha ubicati[xiv].
Dato ugualmente poco chiaro anche per Curto che, convinto di aver collocato correttamente il teatro nei pressi della chiesa di Santa Maria Maggiore, conclude che i ruderi rinvenuti nei pressi di palazzo Marino non possono che appartenere all'anfiteatro, anche perché: “E di vero, una grandiosa città come si era la nostra, guerriera sotto gli antichi dominatori, non poteva essere privata di quel pubblico luogo, dove si esercitavano gli spettacoli ed i ludi. […] un’area capiente per migliaia di persone […]; di conseguenza, nella largura dell’attuale piazza V. Emanuele può collocare, senza tema di smentita, il tempio di Giove. In tutto questo affannarsi a collegare gli edifici alle epigrafi che li testimoniano: Sicché noi niente abbiamo inventato […] Sicuri poi di non essere affatto smentiti, atteso i luoghi ed i fatti son quelli”, sembra però dimenticare che, nell'elenco dei grandi monumenti che non potevano mancare in quella grande città che voleva fosse l’antica Atena, vi doveva essere anche il Foro, che ritengo plausibile abbia sacrificato perché gli mancano reperti attestanti la sua esistenza.
Come già detto, Curto, come Lacava prima di lui, non riesce a cogliere l’importanza di una necessaria visione d’insieme dell’insediamento e non attribuisce la giusta importanza nemmeno all'anomalia della concentrazione di più epigrafi nello stesso luogo, evidentemente trasportatevi, forse anche da luoghi d’origine ben lontani, per essere reimpiegate in nuove fabbriche[xv]. Va infine detto che, secondo T. Mommsen, considerato il più grande classicista del XIX secolo, proprio l’epigrafe che testimonierebbe un avvenuto combattimento tra due gladiatori e quindi: soltanto per deduzione l’esistenza di un anfiteatro nell'antica Atina, è un falso storico[xvi]. Se così fosse, proprio le fonti verso le quali Curto nutre cieca fiducia potrebbero essere inattendibili, così come i vecchi manoscritti del 600, infarciti da fantasticherie dei loro autori[xvii].
In conclusione, riguardo alla vera natura dei ruderi testimoniati nei pressi di palazzo Marino, ancora non vi è alcuna certezza perché mai supportati da una concreta prova archeologica. Eppure, nonostante la totale assenza di conferme, il contenuto degli scritti su Atena di autori passati e più recenti, abbracciano indifferentemente le discordanti ipotesi degli autori più antichi, senza però addurre alcun valido argomento a sostegno dell’una o dell’altra ipotesi. In ogni modo, per far luce sulla reale natura dei ruderi testimoniati, ritengo sia necessario innanzitutto evitare di ripetere pedissequamente quanto scritto da altri in passato ed operare invece un serio approfondimento sull'attendibilità di queste testimonianze, partendo proprio dall'accertamento della reale presenza in Atena degli stessi “testimoni”. Ricerca che potrebbe chiarirci se questi autori si siano soltanto limitati a riportare e congetturare su quanto riferito da una più antica fonte giudicata attendibile: il suddetto monaco agostiniano Luca Mandelli di Diano, il più accreditato storico locale, che a sua volta avrebbe potuto interpretare in modo non corretto quelli che ritiene essere “i vestigi d’un magnifico teatro”[xviii].
In sintesi, nei riguardi di un teatro, od anfiteatro per dirla alla Macchiaroli[xix], da oltre un secolo nulla di “archeologicamente nuovo” sotto il sole e niente di più della meccanica ripetizione di assiomi su cui si è voluto fortemente basare un teorema ancora lontano dall'essere dimostrato. Sulla scorta delle ricerche che conduco da anni, sulle informazioni trasmessemi da “nonna” Giovanna e poiché io stesso sono stato testimone di alcuni ritrovamenti, passati sotto silenzio, durante la realizzazione della rete fognaria in via Borgo-Braida negli anni 70, sono giunto ad una conclusione plausibile che potrebbe far chiarezza sull'annoso dilemma. La complessità delle argomentazioni richiede però una trattazione a parte, che spero di ultimare a breve.
Concludo con un’ultima precisazione, che ancora una volta mette in guardia dall'accettare senza discernimento quanto riportato dalle antiche fonti: Curto attribuisce al prete D. Elia Marino la vendita di una statua di Ercole in oro massiccio ma, come già detto, il “prete” era Don Severiano Marino, mentre Don Elia era il fratello. Detto Don Elia, con la sua famiglia, abitò fino alla morte la prima residenza dei Marino, nel cui portale si legge la data 1760 e che, ulteriore errore, Curto riporta come “le case Mango”, famiglia che non ha edificato il palazzo ma che lo ha soltanto acquistato ottanta anni dopo la sua costruzione, così come soltanto un secolo dopo la sua costruzione fu ceduta anche la residenza più recente, la stessa dalla quale scrivo queste brevi note[xx].

Atena Lucana, 21/04/2016

Arch. Angelo Sangiovanni




NOTE:

[i] La notizia, che veniva tramandata come leggenda ha, invece, fondamento storico. Infatti, il Vallo di Diano nel Pleistocenico era un lago, prosciugatosi in epoca storica. Alla nascita della leggenda contribuì probabilmente Paolo Eterni che, nonostante le precise informazioni tramandate da Cassiodoro sul Battistero di San Giovanni in Fonti, indica questo edificio come il “Lavacro di Diana” e, richiamando “Le metamorfosi” di Ovidio, lo descrive come il mitico luogo dove la dea fu vista nuda dal cacciatore Atteone.
[ii] Questo e tanto altro di interessante ed inedito è emerso dalle mie ricerche, compresa l’esistenza di un altro e più antico edificio di loro proprietà, di cui si era totalmente persa memoria ed il cui ritrovamento in antichi documenti, è fondamentale per un tentativo di ricostruzione attendibile dello sviluppo dell’urbanistica atinate.
[iii] Nei documenti dell’epoca, insieme a Severiano, lo troviamo anche come Xaverianus o, meno frequentemente, come Saveriano.
[iv] Tale strafalcione, che indicava il palazzo come “Di Santi” e cioè con il nome dei primi acquirenti, che poco tempo dopo ne rivendettero una parte alla mia famiglia, fu riportato tra il 2004 ed il 2005, sia nel totem posizionato nei pressi del mercato coperto, sia nel non certo impeccabile contributo atinate al libro "Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L'opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano", stampato a cura di G. Ferrari per la SGA Editore, per poi approdare, rimbalzando per anni tra vari siti internet, sulle audio guide dell’Antiquarium di Atena Lucana. Memore della scarsa attenzione data in passato da chi di competenza al sottoscritto ed al pericolo presagito, questa volta ho segnalato la presenza del falso storico in via ufficiale, chiedendo ed ottenendo il ritiro delle audio guide dall’Antiquarium comunale, in cui erano riportate, oltre a questa, altre notizie storiche prive di fondamento.
[v] Langone Michele Ciro Lu cuntu ri l’atinati Buccino (Sa), Grafica Martino, 2015
[vi] Ringrazio la Dott.ssa Anna di Santo, funzionario responsabile dell’Ufficio Beni Archeologici di Sala Consilina, per avermi confermato la natura del prezioso reperto, ora conservato nei depositi del Municipio.
[vii] Ritengo altamente improbabile la profondità dello scavo per le fondazioni di palazzo Caporale, da lui riferite come superiori ai 10 metri, cioè pari quasi all'altezza del fabbricato fuori terra. Prestando fede a questa misura come quota del ritrovamento, dovremmo spostare anche il piano di campagna del luogo in epoca romana, che determinerebbe un salto di quota enorme rispetto a quella del piano terra della vicina torre del XIII sec. In ogni caso, la profondità riportata dal Curto dei ruderi del supposto tempio di Giove, discorda anche con quella del ritrovamento dell’iscrizione del balneum, rinvenuta molto più in superficie. Stessa perplessità ce l’ho anche per i 40 palmi dell’altezza del muro dell’anfiteatro trovato in via Borgo-Braida che abbasserebbero il piano di campagna di circa 11 metri. Non riesco poi ad immaginare quale evento abbia potuto causare la completa sepoltura di un edificio così imponente, né chi e con quali soldi avrebbe finanziato l’enorme scavo ed il successivo rinterro testimoniato da Curto. Lo stesso dicasi per la spesa e la difficoltà dello scavo in roccia profondo 4 metri, in occasione del ritrovamento del “Logeo”
[viii] Si aggiunga a questo, che nel sito del ritrovamento, indicato con sufficiente precisione dalla Dott.ssa Elena D’Alto nel suo libro, ancora oggi sono affioranti le rocce che fanno da fondazione per le case dell’abitato dentro le mura e che non denunciano alcun intervento per la loro trasformazione in gradinate.
[ix] D’Alto Elena, Atena antica, Laveglia Editore, Salerno, 1985
[x] Lacava Michele, Istoria di Atena Lucana Napoli: R. Tip. F. Giannini & F., 1893.
[xi] Uso il temine “vuole” e non “attribuisce” poiché do per scontato che il Dott. Lacava non abbia mai potuto vedere i lavori di scavo per la realizzazione di palazzo Caporale ed i relativi ruderi rinvenuti in quanto, come risulta da più contributi storici sulla vita del Dott. Lacava, reperibili anche online, questi nel 1866 non poteva essere ad Atena Lucana in quanto medico al seguito di Garibaldi a quel tempo impegnato a Ravenna nella guerra contro gli austriaci. Lacava ebbe modo di visionare i ruderi di Atena soltanto tra il settembre ed il novembre del 1882 quando, insieme a F. Bernabei, accompagnò l’archeologo francese F. Lenormant nel suo viaggio di studio tra Lucania, Vallo di Diano e Cilento, condotto tra il 1880 ed il 1883. Da qui ritengo derivi l’incertezza, di cui si dirà appresso, sull'attribuzione dei ruderi visionati nei pressi di palazzo Marino e che Lenormant attribuisce ad un anfiteatro. Incertezza quella di Lacava che costituisce, a mio giudizio, un importante indizio.
[xii] Lacava Michele, op. cit.  pag. 73.
[xiii] “Nell’attuale paese vicino all’abitazione del signor Marini sono appariscenti gli avanzi di un anfiteatro” Lacava Michele, op. cit., pag. 50, nota 2.
[xiv] Didier Arturo, Diano: città antica e nobile, Teggiano, 1997
[xv] I Caracciolo reimpiegarono le pietre della torre e di parte del castello, ormai diroccati, per la costruzione del palazzo nell’attuale piazza V. Emanuele.
[xvi] Come del resto, sempre il Mommsen, giudica apocrifa anche la XXIX, che fa invece un chiaro riferimento ad un anfiteatro. 
[xvii] Ho avuto modo in passato di dimostrare con un’esemplificazione grafica che quanto asserito da Paolo Eterni nella metà del XVII sec. sulla torre di Atena, fossero delle fantasticherie. Quanto invece da lui riportato in riferimento alle vestigia di un antico teatro, non si discosta da quanto affermato da Luca Mandelli.
[xviii] Didier Arturo, op. cit.
[xixMacchiaroli Stefano “Diano e l’omonima sua valle”, Gabriele Rondinella Editore, Napoli, 1868.
[xx] Ulteriore precisazione, nella precisazione, a dimostrazione che nessuno è immune da errore. In realtà mi è sfuggito il dettaglio, importante, che il Don Elia prete a cui si riferisce Curto non è il fratello minore dell'Abate Severiano, ma un loro discendente. Infatti, Curto si riferisce ad un ritrovamento avvenuto nel 1836, quindi avvenuto dopo la morte di Elia e Severiano.




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© Arch. Angelo Sangiovanni
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lunedì 3 agosto 2015

Le grotte dei saraceni

“Colui che non sa e non sa di non sapere È uno sciocco. 
Evitalo. 
Colui che non sa e sa di non sapere È un fanciullo. 
Istruiscilo. 
Colui che sa e non sa di sapere È addormentato. 
Sveglialo. 
Colui che sa e sa di sapere È un saggio. 
Seguilo.” 

Proverbio arabo


Già in passato ho avuto modo di evidenziare fandonie riportate come episodi della nostra storia, talvolta spacciate ad arte per leggende, nell'intento di renderle più "vere", ricalcando un modo di fare comune anche tra gli antichi autori. In alcuni casi infatti, ho potuto verificare che le notizie tramandateci sono più figlie del campanilismo dei nostri avi che della vera ricerca.
Tra le più fantasiose: la torre tanto alta da cui si poteva vedere il mare oltre gli Alburni. Più recenti: l'atto di cannibalismo a danno di un principe medievale mai identificato, l'esistenza di una fantomatica Università degli (Studi) Atinati,  la creazione dal nulla  di un inesistente Palazzo Di Santi in via Borgo Braida, attuale via Umberto I (col conseguente serio rischio della perdita della memoria dello storico Palazzo Marino), le porte della cinta muraria medievale che si spostano da ovest ad est, la ricostruzione a dir poco bislacca del castello riportata in una pubblicazione degli anni 90 (cui ha fatto seguito quella altrettanto fantasiosa, purtroppo addirittura realizzata qualche anno fa),
Al peggio però non c'è mai fine: è di qualche giorno fa il rinvenimento in internet di un articolo su "Cilentano.it" che cita le fantomatiche grotte, perciò riprendo un mio vecchio scritto e lo adatto all'occasione.



Il percorso per le grotte


Cito l'Enciclopedia Treccani: " SARACENI. - Nome col quale nel Medioevo cristiano europeo sono stati designati genericamente gli Arabi. Il vocabolo, con questa accezione, è del tutto ignoto alla tradizione storica e letteraria degli Arabi stessi (...). Comunque sia, presso gli autori più antichi il nome di Saraceni (Σαρακηνοί) non designa l'intero popolo arabo, ma soltanto una popolazione stanziata sulle coste del golfo di 'Αραβικά Aqaba, nella parte meridionale della penisola del Sinai.(...) il nome dei Saraceni, il cui uso si fa frequente negli scrittori dei due ultimi secoli dell'età antica, finì col designare l'intera stirpe degli Arabi nomadi (...) Non manca tuttavia (così ancora A. Musil, The Northern Ḥeǧâz, New York 1926 pp. 311-12) chi mantiene l'antica etimologia da sharqī "orientale", termine col quale gli Arabi del deserto settentrionale designano tuttora i nomadi razziatori (appunto perché le regioni desertiche, dove hanno sede le tribù dedite al brigantaggio, si trovano a oriente della zona coltivata); e tale etimologia, che mette in rilievo il carattere di predoni dei nomadi, concorda nel senso con l'altra, che ebbe fortuna in passato, secondo cui Saraceni deriverebbe dal verbo saraqa "rubare". Sennonché l'una e l'altra sono insostenibili, in quanto non tengono conto che l'appellativo di "Saraceni", in questa accezione, non si trova nella lingua araba.(...)In significato più ristretto s'indicano col nome di Saraceni quei nuclei di Arabi, provenienti dall'Africa settentrionale, i quali, dopo l'occupazione della Sicilia, nel sec. IX e X, fecero spedizioni e stabilirono stazioni militari lungo le coste dell'Italia meridionale, della Liguria e della Provenza (famosa tra tutte quella di Frassineto; v.), spingendosi, in cerca di bottino, fino ai valichi alpini e in Svizzera."

Il termine "saraceni" indica quindi, nel Medio Evo e cioè nel periodo in cui si suppone abbiano attraversato il Vallo di Diano, l'intero popolo arabo. Soltanto una supposizione perché, a parte un paio di fonti storiche che farebbero intuire un loro passaggio nella nostra valle, ad oggi non abbiamo ancora ritrovamenti che lo testimonino con assoluta certezza.

Il versante nord dell'insediamento antico di Atena Lucana, visto dalla Rupe Rossa. Sullo sfondo: il Vallo di Diano.


Riporto anche un sunto di quanto contenuto in uno dei tanti siti che descrivono la civiltà araba di quel periodo: "Tenevano molto alle buone maniere e il comportamento a tavola era ineccepibile: mangiavano a piccoli bocconi, masticavano bene, non mangiavano aglio e cipolla, non si leccavano le dita e non usavano gli stuzzicadenti. Il gentiluomo musulmano si lavava ogni giorno, si profumava con acqua di rose, si depilava le ascelle e si truccava gli occhi. Per la strada ogni tanto si fermava davanti ai numerosi portatori di specchi per controllare e accomodare la propria acconciatura. Si vestiva con eleganza e non indossava pantaloni rattoppati. I passatempi preferiti dei gentiluomini erano la lotta dei galli, gli scacchi e la caccia. Tra il popolo erano diffusi il gioco dei dadi e quello della tavola reale.
Oltre che nei costumi della vita quotidiana, gli Arabi lasciarono profonde tracce del loro passaggio nella cultura: Palermo sorsero scuole arabe dove si insegnava la sfericità della Terra e i punti cardinali. Lo studio degli astri era molto diffuso e l'astronomia è loro debitrice di molto termini: azimut, zenit, nadir, ecc... Ancora adesso in Sicilia sopravvivono un po' dovunque modelli di architettura araba e quando questa cultura dopo il mille si incontrò con quella normanna nacque la più alta civiltà del medioevo europeo, da cui più tardi derivò quella del Rinascimento.
Anche nell'agricoltura gli Arabi portarono innovazioni: le irrigazioni delle "huertas" (come quelle della "conca d'oro" presso Palermo), colture del cotone, della canna da zucchero e del riso, dell'arancio, coltura della seta, industrie tessili, ceramiche, ecc... Degno di nota è anche il grande sviluppo urbano, i musulmani avevano fissato definitivamente la capitale della Sicilia a Palermo che nel X secolo contava già 300.000 abitanti e in tutto l'occidente musulmano era seconda solo a Cordova. Molti porti sulla costa opposta del Tirreno: Amalfi, Salerno, Napoli, Gaeta erano economicamente nell'orbita di Palermo e della Sicilia musulmana. La moneta del califfato fatimita era il Dinar che aveva corso in tutta l'Italia meridionale ed era imitato altrove. Quando la conquista normanna ( 1061 - 1089 ) riunisce questo territorio musulmano ai territori cristiani d'occidente, gli scambi si fanno più intensi. Le tecniche della coltura della seta e la sua lavorazione arrivano ad esempio nell'Italia settentrionale (Lucca, Venezia).
La Sicilia e l'Italia meridionale hanno acquistato nell'epoca musulmana conoscenze d'ogni tipo, come la Spagna: conoscenze mediche, filosofiche, astrologiche, scientifiche. Questo fenomeno come abbiamo già detto continuerà durante il periodo normanno e alla corte di Federico II, la Sicilia e la Spagna costituiscono i punti più importanti attraverso i quali sono penetrati in Occidente gli influssi orientali, che contribuiranno a determinare quella che sarà l'opera di sintesi del grande Rinascimento italiano."

Giusto per capirci: se dico "i tepee dei pellerossa d'America" o "i tucul degli etiopi" o "gli igloo degli eskimesi" o "le tende dei Tuareg", alludo alle loro abitazioni e perciò, allo stesso modo, se dico "grotte dei saraceni", alludono al fatto che essi, in un certo periodo, per un certo periodo (che deve supporsi sufficientemente lungo), le abbiano abitate. 
Credendo alle grotte dei saraceni ad Atena Lucana in questo senso, dovremmo quindi credere che nello stesso periodo, gli stessi individui che erigevano architetture splendide (palazzi, moschee, ecc.) anche nel nostro territorio, esperti di coltivazioni, che al loro passaggio lasciava profonde tracce nella cultura locale (che stranamente nel vallo non si sono mai trovate), che si depilava le ascelle e si truccava gli occhi, decideva di venire ad abitare, come trogloditi, le nostre grotte, fredde, umide e senza il minimo comfort? Ovviamente tutto ciò è poco credibile e quindi un'eventuale ipotesi di insediamento stabile di saraceni nelle nostre grotte è da scartare.

In verità qualcuno potrebbe obiettare che ad Atena Lucana esiste il toponimo "Saracino" (che significa "Saraceno", nel nostro dialetto), ma è anche vero che, mentre qualche autore del passato ha voluto attribuire la sua esistenza alla presenza di un accampamento saraceno in quel sito (di cui non si sono mai trovate le tracce), altri, invece, più semplicemente, lo ricollegano al cognome di un antico proprietario di quei fondi. In ogni modo, è bene ripeterlo, ad oggi non vi è prova storica della presenza degli arabi nel Vallo di Diano, di conseguenza nemmeno ad Atena Lucana e, pertanto, non esistono prove a suffragio dell'una o dell'altra teoria.  Il Saracino infatti, è un'area che si divide tra un bosco, sito sul versante più a monte e le colture lato valle, che si estendono nell'adiacente località Foresta (nel dialetto locale "a Fresta"). In questi siti, come nell'intera area più alta ad est e sud est dell'abitato, non vi sono grotte, ma abbondano pianori fertili e ricchi di acqua. Va inoltre detto che tale località è un promontorio soleggiato, con una splendida vista sull'abitato stesso e su gran parte della valle, attraversata dalla principale via di comunicazione tra il nord della Campania, la Lucania e la Calabria, realizzata in epoca romana ed oggi ricalcata più o meno fedelmente non tanto dalla S.S. 19 Via Delle Calabrie, come si è creduto per un lungo tempo, ma dall'Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria. Non altrettanto diretto il controllo sulle vie che da essa si diramavano per l'insediamento antico. In sintesi: un luogo distante un paio di chilometri dall'abitato antico (e per questo non sono convinto dell'utilità di un campo militare dei saraceni in quella zona) sebbene comodo ed in qualche misura anche strategico.

Di contro, le cavità naturali del nostro territorio, abbondano sul versante nord, nei promontori vicini ai confini con la Basilicata, ma sono rappresentati da antri con superfici di pochi metri quadrati che suggeriscono, per la loro sola presenza, possibili insediamenti preistorici.
A scanso di equivoci, archiviamo fin da subito la "pratica" della leggenda narrata dagli anziani del posto, in quanto sono nato e cresciuto in questo paese quando i ragazzi e soprattutto i bambini, ascoltavano gli anziani perché erano affascinati dai loro racconti e mai ho sentito questa leggenda, né dai miei nonni, né da altri loro coetanei. Purtroppo, questo della leggenda narrata dagli anziani è soltanto una subsdola trovata per dare una parvenza di veridicità a quanto è, invece, recente invenzione. Ne è prova il fatto che questi "anziani narratori" restano puntualmente anonimi.
Falsa, quindi, la storia dei ritrovamenti durante la seconda guerra mondiale, quando alcune delle suddette grotte furono usate da famiglie atinati come rifugio, mentre altre si ripararono nelle gallerie della Calabro Lucana. Falsa perché le grotte sono state da sempre rifugio di pastori e greggi (oltre che di animali selvatici). Non vi sono, inoltre, notizie di ritrovamenti avvenuti in altre epoche poiché sarebbero stati sicuramente riportati negli scritti degli storici locali.
Falsa anche la leggenda costruita ad hoc dello "sparuto gruppo di saraceni" che, inseguito da tal Siconolfo e dalla sua truppa, si nascosero nelle grotte del vallone, facendo perdere le proprie tracce.
A meno che Siconolfo e truppa a seguito non avessero infilato i copricapo alla rovescia, così che impedissero loro di vedere anche dove mettevano i piedi, i saraceni non avrebbero avuto alcuna possibilità di nascondersi in quei piccoli antri, inutili anche ai ragazzini per giocare a nascondino.
Infatti, come si può leggere sullo stesso sito del Comune: "La grotta si apre in calcari intensamente fratturati. L’ingresso è costituito da ampia caverna che si sviluppa in direzione nord-ovest per una lunghezza di 50 metri. Le pareti laterali presentano una serie di nicchie più o meno profonde, dalle forme comunque tondeggianti; il fondo si presenta con pendenze pressoché costanti di 20° dal fondo verso l’ingresso ed è ricoperto di deposito ghiaioso, tra il quale emerge talvolta qualche blocco di vecchio crollo. La volta presenta un’altezza costante nel tratto iniziale mentre nella parte verso il fondo si alza improvvisamente fino ad arrivare ad un’altezza di 15 metri. La grotta è popolata da una colonia di pipistrelli." - http://www.comune.atenalucana.sa.it/index.php/il-sentiero/le-grotte/grotta-grande


Dettaglio del Vallone Arenaccio con la Rupe Rossa in primo piano

Qui il paesaggio è totalmente diverso, rappresentato da luoghi rocciosi con pendii fortemente scoscesi e non coltivabili, come la Rupe Rossa e gli altri promontori del versante a nord della collina su cui sorge l'insediamento storico di Atena Lucana. Le pareti scoscese del versante nord della collina su cui sorge l'abitato di Atena Lucana e quelle della Serra d'Atena, creano il Vallone Arenaccia, in cui scorre il torrente omonimo, e si affacciano le suddette grotte. Tra queste anche la più grande di tutte, detta appunto Grotta Grande, una stanza unica ampia non più di duecento metri quadrati.

Chiarito che anche la storia del nascondiglio dei saraceni fa acqua da tutte le parti, sempre a scanso di futuri equivoci (le leggende, specie quelle metropolitane, mutano nel tempo arricchendosi spesso di nuovi contenuti), escludiamo eventuali varianti di un loro uso da parte di un esercito saraceno invasore.
Del resto orde di saraceni approdarono sul suolo campano perché richiamati  proprio da Radelchi e Siconolfo, rispettivamente principi di Benevento e Salerno, in guerra tra di loro.
A che pro un esercito invasore avrebbe deciso di risalire il canalone percorrendo sentieri per capre, col rischio di essere travolti dai massi rotolati dall'alto del costone dai difensori dell'abitato, nonché quello prevalentemente roccioso e scarsamente soleggiato e perciò privo di grandi aree coltivate utili ad un esercito che deve approvvigionarsi?
Che utilità avrebbe tratto dall'occupazione di una serie di piccoli, freddi e perciò inutili antri e dare l'assalto ad un centro abitato dal versante meglio difeso naturalmente?

La Rupe Rossa  ed il Vallone Arenaccio visto dall'insediamento antico di Atena Lucana

L'assalto si da scegliendo la posizione più vantaggiosa per gli assalitori e non per i difensori, così come l'assedio si fa tagliando i rifornimenti agli assediati, quindi controllando militarmente le vie di comunicazioni principali e non i sentieri delle capre.
Tutto questo senza contare che ancora oggi e da sempre, gli eserciti in movimento usano le tende per realizzare i propri accampamenti e che gran parte delle popolazioni "saracene" erano anche culturalmente legate a questo tipo di riparo.
Molto più utile creare invece, un campo nell'area oggi occupata dalla piazza e dal borgo extra moenia, un'ampia spianata sita a ridosso dell'abitato fortificato e che rappresenta il crocevia obbligato di tutte le strade da e per l'abitato. Lo stesso sito che gli antichi autori atinati hanno voluto indicare come sedi di molti grandi edifici di epoca romana, tra cui templi, bagni e perfino un "teatro forse anfiteatro".

E con questo credo che abbiamo messo una parola definitiva alla presenza dei saraceni nelle grotte atinati ed a tutte le possibili varianti che si vorranno in futuro creare ed indebitamente attribuire a non ben identificati "anziani del posto".

Allora come si spiega la nascita di questa nuova fandonia che narra di presunte grotte "abitate" dai saraceni?
Succede che, talvolta, un tecnico in cerca di lavoro, s'informa sulle nuove misure finanziate e cerca, tra le varie voci finanziabili, l'ispirazione per un progetto da proporre all'Amministrazione di qualche Comune che potrebbe averne bisogno e dal quale ricevere il tanto agognato incarico.
Cosa del tutto normale, perché noi tecnici di questo viviamo, di incarichi pubblici e privati.
Nel processo però talvolta interviene anche un "esperto di marketing" convinto che, per far finanziare il progetto, non è sufficiente che questo sia ben fatto o che sia veramente utile (forse non è nemmeno necessario), ma deve far colpo presso il funzionario di turno con un nome accattivante. Succede così che per far finanziare il progetto di recupero a fini turistici di un antico sentiero di pastori, sia necessario inventarsi un suo passato storico più prestigioso, magari come antica via che conduce niente poco di meno che alle fantomatiche "grotte dei saraceni".

L'ingresso della Grotta Grande


Le "grotte dei saraceni"  rappresentano un falso storico creato con la stessa logica dell'altrettanto poco credibile "via dei pellegrini" di qualche anno prima e di cui parleremo a tempo debito.
Questi nomi improbabili sono frutto della fantasia e della mancanza di cognizione storica dei suddetti "esperti di marketing" che così creano, più o meno inconsapevolmente, pericolose notizie false al solo fine di promuovere presso gli Enti che dovranno finanziarli, progetti spesso ancor meno credibili dei fantasiosi nomi che gli affibbiano. Tanto, tra le non competenze di chi valuta i progetti, c'è anche la verifica della veridicità di quanto affermato a giustificazione dell'utilità del progetto. Sarebbe però interessante leggere il contenuto delle Relazioni Descrittive di questi progetti, parti sostanziali che, come il contenuto di un articolo di giornale, dovrebbe essere coerente con quanto sintetizzato nel titolo. 
Intanto i politici di turno si vendono il progetto, tra una cena ed un caffè al bar e gli pseudo storici, che nulla hanno imparato da Erodoto, insieme ai giornalisti che niente hanno a che vedere con Bob Hoodward e Carl Bernstein, tra una recensione su internet e l'altra, commissionata per pubblicizzare un locale o una rievocazione storica all'amatriciana, amplificano il falso storico. Questo passa parola senza le necessarie verifiche contribuisce a diffondere in forma virale, il falso storico creato ad arte, fino a farlo diventare verità storica, quanto meno tra coloro che hanno altra formazione scolastica e che si avvicinano a questi argomenti, spinti, nella maggior parte dei casi, più dalla curiosità che da un vero interesse per la propria storia.
Il fatto più grave è che più passa il tempo, più perdiamo il contatto con la nostra vera storia e più confondiamo la cultura con il floklore, il mito con la leggenda metropolitana, il falso con il vero.
Forse sta succedendo perché mancano gli stimoli che ci riportino sulla giusta via. Eppure sarebbe bello ritrovarci tutti insieme, giovani e meno giovani e iniziare questo percorso a ritroso per ritrovare le nostre radici e smetterla di essere foglie in balia del vento ad ogni progetto da far approvare.
Sarebbe invece utile che la Pro Loco si assumesse il compito di smentire queste fandonie in forma ufficiale, contattando i proprietari di questi siti e chiedendo la rettifica di quanto non rispondente al vero. Per difendere la nostra identità e la verità sulle nostre origini. Sarebbe anche utile che la Pro Loco destinasse parte dei fondi che percepisce, per finanziare progetti di ricerca, magari sottraendoli alle suddette rievocazioni storiche all'amatriciana.


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giovedì 12 febbraio 2015

La riqualificazione urbana di due aree adiacenti la casa comunale

"Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola.
Basta ascoltarla, perché la città è il riflesso di tante storie."
(Renzo Piano)

Le prima delle due aree adiacenti la casa comunale interessate dall'intervento di riqualificazione urbana è ubicata a nord della stessa, s'identifica col tratto di via G. Di Santi che da Piazza Europa risale la Braida ed è compreso tra le particelle 433 e 470 esclusa. L'altra, di circa 500 metri quadrati, è costituita da un'area assimilabile ad un triangolo con il lato corto delimitato dal prospetto ovest della casa comunale e, per i restanti due lati, dalla Via G. M. Pessolani a sud e da Viale Kennedy a nord. Gli interventi sulla prima area prevedevano l'ultimazione di quelli già eseguiti negli anni passati sul tratto più a monte di Via G. Di Santi e che consistevano nella predisposizione per un futuro intervento di miglioramento dell'illuminazione pubblica ed il rifacimento dei marciapiedi pedonali antistanti l'antica schiera con affaccio su detta via. Gli interventi previsti per l'area ubicata a ridosso della casa comunale, miravano invece al suo integrale recupero.
Una chiara linea di demarcazione tra le due aree di intervento è rappresentato sia dal naturale dislivello tra le stesse, sia dalla presenza di Viale Kennedy, la principale via meccanizzata del paese, che attraversa l'area di intervento in senso longitudinale con direzione est-ovest. Sull'altro lato di viale Kennedy, un'altra piccola area a verde, per la quale l'Amministrazione comunale ha però deciso di intervenire separatamente e, per questioni economiche, in futuro.1
La forte cesura rappresentata da viale Kennedy2  la si percepisce bene dalla prospettiva che si gode dalla sua prosecuzione verso valle, che prende il nome di via Roma e dalla parallela via Borgo Braida, che ugualmente confluisce in Piazza Europa.
Sebbene profondamente diverse nella forma e nella rappresentatività, le due aree d'intervento costituiscono realtà adiacenti e quindi facenti parte di un unico contesto i cui problemi sono stati affrontati e risolti con un progetto di riqualificazione altrettanto unitario.
Sia per amore della brevità, sia perché di aspetto più tecnico, si evita una descrizione più dettagliata degli interventi su via G. Di Santi, per dedicare maggior spazio a quelli che hanno riguardato l'area a ridosso della casa comunale, sicuramente più interessanti sotto l'aspetto della riqualificazione urbana.

IL CONTESTO

Assimilabile ad un triangolo isoscele di circa 500 metri quadri, l'altra area oggetto di intervento è delimitata da via G. M. Pessolani a sud, da viale Kennedy a nord e dal prospetto ovest della casa comunale rispettivamente per metri 55,00 – metri 53,00 e metri 14,00. Divenuta sede di un campo di bocce realizzato circa alla metà degli anni 80 e frequentato fino ai primi anni 90, originariamente questa piccola area verde era uno scampolo di terreno, così come l'altra ancora più esigua posta sull'altro lato dello stesso viale, inutilizzabile per l'espansione edilizia degli anni 70. Divisa tra il campo di gioco vero e proprio (delimitato da una rete metallica a rombi), una piccola aiuola, il marciapiede e l'alloggiamento per la cabina della rete del gas, da oltre un trentennio è luogo spontaneo di socializzazione, in virtù della sua felice ubicazione nella zona del centro abitato con più vita. Mentre la parti occupata dall'aiuola e dal campo di bocce non sono mai state oggetto di specifici interventi di riqualificazione, la parte costituita dal marciapiede, qualche anno fa è stata nuovamente arredata, questa volta con panchine e lampioni in stile Liberty, alberi e fioriere.
La presenza di panchine e la vicinanza, oltre che alla casa comunale, soprattutto alla zona commercialmente più viva del paese, è stato il motivo per il quale questa piccola area verde e l'altra ancor più esigua ubicata sul lato opposto dello stesso viale, sono diventate il principale luogo di aggregazione per giovani e meno giovani, in particolar modo la domenica e nelle serate estive, quando il viale diventa ad esclusivo traffico pedonale.


PROSPETTIVA DA PIAZZA EUROPA VERSO LA CASA COMUNALE (edificio di colore rosa): 
VIA G. DI SANTI (a sinistra), VIALE KENNEDY (al centro) E VIA G. M. PESSOLANI (a destra)

Oltre ai suddetti lampioni, che si rifanno allo stile Liberty, allineati sul marciapiede, nella piccola aiuola e nel campo di bocce erano presenti anche due lampioni del tipo a fusto cilindrico rastremato, con un unico sbraccio posto a circa dieci metri di altezza, ad illuminare via G. M. Pessolani.
La SS 95, ancora oggi, rappresenta la principale via di comunicazione in ambito comunale, in quanto l'unico collegamento con il Vallo di Diano e, di conseguenza, con i principali assi viari che lo attraversano, rappresentati dall'autostrada A3 Sa-Rc, dalla SS 19 Via delle Calabrie e dall'ormai dismessa tratta ferroviaria Sicignano-Lagonegro.


PROSPETTIVA DA PIAZZA EUROPA VERSO IL CENTRO STORICO: 
VIA BORGO BRAIDA (a sinistra) E VIA ROMA (a destra)

Nella sua funzione di principale asse viario meccanizzato, Viale Kennedy è la realtà su cui oggi si concentrano non solo la sede degli Uffici comunali ma anche tutte le attività commerciali del paese, compreso il mercato settimanale, che si tiene la domenica mattina lungo via Roma, prosecuzione in direzione ovest di viale Kennedy.
Anche per questo appare chiara non solo l'importanza di quest'area ma la necessità del suo recupero alla funzione attribuitagli, sebbene in modo confuso nel disegno urbano pensato a cavallo degli anni 70-80, ma che in seguito è stato fatto proprio e meglio interpretato dagli stessi residenti, come luogo d'incontro e socializzazione.

PRIMA

IL PROGETTO

LA REALIZZAZIONE


Sebbene a ridosso della nuova casa comunale, quindi con un'ubicazione centrale e privilegiata, questo scampolo verde, a cui non sono mai state riconosciute le sue reali potenzialità di possibile collegamento tra l'insediamento di epoca medievale e la caotica espansione post anni '70, per lunghi anni è stato oggetto di interventi di riqualificazione soltanto parziali. Soltanto di recente sono state formulate varie ipotesi sulla sua possibile destinazione, tra cui area mista a verde e parcheggi , oppure area a verde attrezzato per i bimbi3.
La mia proposta progettuale, risalente al 2008 ma realizzata soltanto nel 2014, si è discostata dalle precedenti. Muovendo dallo studio del rapporto tra l'area ed il contesto che la ospita, la cui influenza, per le ragioni ben note, si estende all'intero centro abitato, è giunta a conclusioni totalmente diverse su quella che poteva essere la sua migliore destinazione e, di conseguenza, la sicura integrazione con l'articolato contesto di viale Kennedy, rappresentato dagli uffici comunali e dalle attività commerciali. Sono state le conclusioni scaturite dall'osservazione della sua quotidianità e non della particolare vitalità in occasioni di determinati ed occasionali eventi (ad es. feste patronali e festività in genere), a dare preziosi suggerimenti progettuali. Altra fase di studio altrettanto importante sul rapporto tra area e contesto ospitante, si è concentrata sulle prospettive privilegiate da e verso di essa. Le prime sono rappresentate dalla panoramica sulla vita di viale Kennedy, sugli scorci sul centro storico dentro le mura e quelli sull'antico decumano; le seconde sono quelle che si possono godere su di essa da piazza Europa, via Borgo Braida  e via Roma (giungendovi da valle) e da viale Kennedy (arrivando da monte). Dette prospettive sono state analizzate soprattutto in movimento, vedendo ciò che vede il passante e progettate in base alla diversa percezione che questi ha della forma dell'area, al variare della sua posizione rispetto ad essa. 



PRIMA

LA REALIZZAZIONE

L'architettura però, a differenza della pittura, è tridimensionale e pertanto non la si può vivere completamente guardandola dal di fuori ma solo attraversandola. Per lo stesso motivo non la si può giudicare guardando un disegno, che è soltanto la sua astrazione, ma sforzandosi di immaginarla inserita nel contesto e cercando di capire se è destinata a diventare un luogo o se è invece condannata a rimanere semplicemente uno spazio, più o meno ben organizzato che non partecipa al preesistente. E' il legame che si crea con il suo fruitore che trasforma lo spazio in luogo, in una simbiosi, un rapporto intimo che può nascere o meno. Quando ciò si verifica, quando questa alchimia si crea, accade a prescindere dalle intenzioni del suo progettista, ma non a prescindere dalle sue scelte progettuali. Intervenire in modo corretto in un contesto, implica perciò necessariamente averlo interiorizzato e capito e aver individuato le sue potenzialità espresse ed inespresse, peculiarità che non possono (che non devono) essere ignorate e stravolte, ma umilmente assecondate e, se possibile, rimarcate.


VIALE KENNEDY E LA CASA COMUNALE

Guardando viale Kennedy con attenzione, non si vedono solo auto parcheggiate lungo il marciapiede che delimita l'area “ex campo di bocce” e che dura, intenso, soltanto nell'orario di apertura degli uffici comunali. Quello che si vede è soprattutto il passeggio domenicale o quello delle sere d'estate, è la sosta sulle panchine, al sole o al fresco. In queste occasioni il residente si riappropria del suo spazio e la piccola area verde diventa luogo di ritrovo e di relax per gli anziani seduti al sole a leggere il giornale o a chiacchierare e, fino a notte fonda, di socializzazione dei più giovani. Si vede, in sintesi, un luogo di ritrovo di tutti con tutti e si capisce il senso della scelta di organizzarlo per assecondare la sua “naturale vocazione".
A parte la nota stonata della scelta di una recinzione di gusto razionalista (così da non dover sostituire quella identica già presente nell'area a verde sull'altro lato di viale Kennedy), invece di una che si rifacesse allo stile Liberty, coerente con l'arredo già presente, quanto previsto in fase progettuale si è fedelmente realizzato. Il piano dell'area è stato ricondotto ad un'unica quota, così da ottenere, sia l'abolizione delle barriere architettoniche presenti in essa, sia, con l'ampliamento dei marciapiedi, di un'area di socializzazione più ampia e meglio organizzata.

PRIMA

IL PROGETTO

LA REALIZZAZIONE

Anche le prospettive catturate dalla fotocamera nella fase di studio ed elaborate al CAD, si sono sostanzialmente concretizzate nell'organizzazione degli spazi, compreso quello per la futura installazione della “casa dell'acqua”, nella differenziazione dei percorsi4 e nella disposizione degli arredi: i lampioni e le panchine Liberty, la fontana scenografica, il prato a zolle con nuove essenze arboree. 
Il nuovo disegno genera infatti una serie di “anse” con funzioni di piazzole ospitanti le sedute, ora non più ostacoli per i passanti ma elementi di arredo discretamente posti ai margini di un percorso pedonale molto più ampio, da cui partecipano alla vita su Viale Kennedy e rappresentano punti di osservazione con prospettive privilegiate verso la parte più antica dell'insediamento dentro le mura e sul decumano, mettendo il residente come davanti ad una serie di quadri, il cui soggetto è la propria storia.

PRIMA
IL PROGETTO

LA REALIZZAZIONE

LA REALIZZAZIONE

L'intervento di riqualificazione, sfruttando le prospettive offerte dalla pendenza del sito che consente una visione globale dell'area, le valorizza con un disegno ed una disposizione dell'arredo, ariosa. La linea di confine sinuosa, tra l'aiuola e l'area di sosta, rende meno immediata l'individuazione dei limiti delle forme, restituendo l'immagine di una loro reciproca compenetrazione ed uno spazio non rigidamente imprigionato in esse ma percepito come fluido, in un movimento apparente che segue il variare della prospettiva dell'osservatore in movimento da e verso di esso. 



LA REALIZZAZIONE

LA REALIZZAZIONE

LA REALIZZAZIONE

LA REALIZZAZIONE

Il senso di dinamicità, accentuato dalla visione dal basso verso l'alto, che si gode da più punti, ha una sua prospettiva privilegiata in Piazza Europa, punto d'osservazione dal quale si coglie non solo la stretta relazione tra la casa comunale e la piccola area, con la conseguente rappresentatività di cui la investe la sua ubicazione, ma anche il suo difficile ruolo di prima ed unica cerniera, progettata, tra il vecchio ed il nuovo insediamento urbano5.


IMMAGINE DI GOOGLE EARTH



NOTE:
1- Nella speranza che non si perda l'occasione di realizzare un disegno unitario, ho già mostrato all'Amministrazione, il mio progetto anche per quest'area, nella speranza che si trovi presto la copertura finanziaria sufficiente alla sua realizzazione.
2 - La Strada Statale n. 95 che rappresentava l'unico collegamento viario tra la Basilicata ed il vallo di Diano, attraversa l'area oggetto d'intervento, con andamento est-ovest, prendendo il nome di viale Kennedy nel tratto a monte di piazza Europa e di via Roma in quello opposto. Sebbene a partire dagli anni '70 sia stata sostituita dalla Strada Statale dell'Alto Agri SS276, essa è ancora una via molto trafficata, in quanto l'unico collegamento del centro abitato, con la valle.
3 - La prima ipotesi formulata dall'Amministrazione comunale e per la quale mi è stato chiesto di elaborare relativo progetto, è stata il suo utilizzo come parcheggio, nella sua parte più stretta e come verde attrezzato in quella più larga. L'ipotesi, su mio steso consiglio, è stata in seguito opportunamente scartata in quanto, per le sue dimensioni esigue, l'area era palesemente inadeguata a far fronte al bisogno di parcheggi già dei soli residenti in zona, quindi ancor meno nei giorni lavorativi, a quelli degli impiegati del Comune e degli utenti. Tale reale necessità, testimoniata nella documentazione fotografica redatta in una qualsiasi giornata lavorativa, porta inevitabilmente a concludere che i problemi di parcheggio nei pressi della casa comunale vadano risolti efficacemente altrove, magari recuperando altre aree poco distanti e male utilizzate.
Altrettanto impraticabile anche l'ipotesi alternativa, per la quale esisteva già un progetto, che la vedeva come possibile luogo di gioco per i più piccoli. A mio modesto parere infatti, proprio la sua collocazione a ridosso della principale e più trafficata via di comunicazione del paese, prudentemente ne sconsigliava tale destinazione.
4 - Ben evidenziata, la piccola rampa che conduce ai depositi e agli archivi comunali, i cui accessi sono in un'area più piccola, separata da quella principale e ad un livello più basso. La stessa rampa funge anche da comodo collegamento pedonale tra viale Kennedy e la via G. M. Pessolani.
5 - Dall'assenza di un coerente collegamento tra il chiaro e ben strutturato insediamento di epoca medievale e la caotica ed informe espansione urbana cominciata negli anni '70 e dei conseguenti problemi di relazione tra la casa comunale e Piazza Europa, ho avuto già modo di dire ampiamente in occasione del concorso d'idee per la riqualificazione dell'area del mercato coperto e a questo scritto si rimanda per eventuali chiarimenti.

Render realizzati dal  Geom. G. Navatta



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